Partiti e politici

Viaggio in Emilia, tra concerti vietati e montagne proibite: “Adesso è dura”

4 Marzo 2021

REGGIO EMILIA – È passato poco più di un anno, e sembra un secolo. Alla vigilia delle scorse elezioni regionali, viaggiare per l’Emilia significava toccare con mano la prepotente avanzata della destra leghista che marciava così spedita da – perfino – lambire il sacrario della roccaforte, la presidenza dell’Emilia Romagna. La corsa di Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni si fermò a qualche passo dal sogno impossibile, a fare muro quel che resta di una storia solida, usato sicurissimo da tre quarti di secolo, e un improvvisato argine costituito da sardine. Preistoria, ormai, dopo che la pandemia ha di fatto ridisegnato i confini della vita, riplasmato il dna stesso delle nostre società e, infine, riscritto la storia delle alleanze politiche. Borgonzoni è sottosegretaria alla Cultura a Roma, in un ministero saldamente nelle mani di un uomo forte del Pd, peraltro emiliano anche lui, come Dario Franceschini. Stefano Bonaccini, dalla Bologna in cui presiede la giunta regionale, non nasconde neanche troppo di essere – o almeno di sentirsi – il volto perfetto della discontinuità chiamata a superare la sconfitta strategica di Zingaretti e Bettini. Per sfidare Salvini proprio sul suo terreno, dopo averci fatto un governo insieme. Chi avrà ragione? Intanto, l’Emilia Romagna vira di nuovo verso il rosso, e non è il colore nostalgico della Bulgaria d’Italia, ma quello dell’allarme per una malattia che non sembra arretrare, e che continua a mietere vittime e a lasciare scie di macerie sociali ed economiche dove passa.

Tagliando come da ovest a est, dalla Pianura Padana all’Appennino la provincia di Reggio Emilia, dalla via Emilia risalendo fino al west delle montagne, la politica sembra lontana, anche in una terra così politicizzata da ben prima che nascesse la Repubblica. Lontana è la politica, quanto sembra vicina, sempre troppo e troppo a lungo, la pandemia e i suoi effetti economici. Una provincia che ha nel sangue la vocazione all’eccellenza enogastronomica, che si allunga dalla pianura afosa e piena di zanzare d’estate alle montagne coperte di neve, dove la regione inizia a parlare con accento ligure e a guardare verso la Toscana. Una terra in cui le eccellenze industriali non contano meno delle balere hanno collegato il Novecento delle guerre e della pellagra al terzo millennio, dove i cantautori e i rocker hanno riempito le piazze di Bologna ed ettari e ettari di campagna. Una terra orgogliosa dei suoi servizi per anziani e bambini, servizi fondati, tutti, sulla socialità. Insomma, una terra, quella emiliana fondata in maniera particolare su tutto ciò che è diventato pericoloso e problematico, e quindi proibito, nell’ultimo incredibile anno solare.

Basta parlare con Stefano Corrias, imprenditore e guida di Promusic, a Vezzano sul Crostolo, azienda leader dei service musicali e teatrali, degli allestimenti dedicati allo spettacolo a tutto tondo, in una terra che sulla musica e sullo spettacolo dal vivo punta da sempre ben più di qualcosa.
“Saremmo completamente fermi da un anno, come azienda, se non fosse che vendiamo online anche i materiali e gli strumenti che affittiamo e noleggiamo. Quindi qualcosina abbiamo fatto. Ma certo, proprio poca roba…”. Un’attività imprenditoriale, quella descritta da Corrias, che si fonda su l’immobilizzazione importante di capitale, e sui continui investimenti in tecnologia. “Perché gli artisti vogliono giustamente sempre il meglio, le soluzioni più innovative, e noi avevamo rinnovato il parco macchine nel 2019. Per dire, avevamo investito 200 mila euro in pannelli led anche perché avevamo un’agenda 2020 strapiena, sarebbe stato un grande anno…”. Sarebbe stato un grande anno, senza la pandemia, ovviamente.
“Siamo dieci dipendenti, me compreso, e poi qualche decine di ragazzi che ci aiuta per gli eventi. I primi hanno sempre preso lo stipendio, a tratti integrato dalla forma di cassa integrazione che riguarda la nostra categoria, erogata dall’EBER, ente che assiste gli artigiani, che abbiamo percepito fino ad agosto, poi basta. Io mi son sospeso lo stipendio da giugno, per aiutare il più possibile l’azienda, ma certo, è dura…”. Soprattutto per chi lavorava “a chiamata”, e non aveva permessi o ferie con cui compensare, o ammortizzatori su cui contare, e che oggi si trova fermo da mesi. Da un anno. Il suo racconto è quello di un imprenditore che ha sempre avuto successo, fino a scoprire di colpo “l’evento traumatico”. “In 25 anni avevo sempre pagato i contributi a EBER senza mai davvero farci caso. Non ne avevo mai avuto bisogno. Poi, all’improvviso…”. Anche la scorsa crisi, quella globale del 2008/2009, non era mai stata percepita, neanche lontanamente, come equiparabile. “Un conto è che meno gente va ai concerti, un conto è che non si possa fare più nessun concerto”. Il futuro, naturalmente, è avvolto nella nebbia, mentre il presente è fatto di scadenze fiscali e debiti che non aspettano. “Le finanziarie, le banche, ovviamente ci stanno addosso. A noi come a tutti. Qualche mese di blocco per le rate ovviamente ha fatto comodo, ma poi è ripartito tutto come prima. E se non paghi ti portano via il materiale, che per noi è la vita, il core business”.
Ma adesso, almeno per il teatro, c’è una data per la ripartenza: il 27 marzo. Difficile farci affidamento, però, che con l’aria che tira ogni ipotesi di riapertura sembra congelata a data da destinarsi. “Ma anche a riaprire” prosegue Corrias “saremmo di fronte a un evento sicuramente importante, ma comunque simbolico. Non si mette in piedi una vera stagione in un mese, e per un paio di mesi o poco più”. Degli indennizzi pensati fin dai primi decreti, Corrias pensa quello che pensano in molti tra quanti hanno un’attività fortemente stagionale.

“Erano tarati su aprile, che per noi è una stagione di bassa marea. Qualcosa abbiamo preso, e ci è servito per pagare qualche stipendio, ma certo il criterio risultava arbitrario e, per un’azienda come la nostra, fortemente svantaggioso”. Prima di salutarci ammette che vedere il bicchiere mezzo pieno è dura, “anche per chi come è abituato a stare in un settore in cui il lavoro e il capitale investiti sono sempre tanti, rispetto ai margini”. Perchè stavolta non è chiaro se, come, quando il mondo tornerà a stare ai piedi di un palco illuminato. Sullo sfondo, per tutti, c’è il momento in cui licenziare non sarà più vietato. Un pensiero alla volta, via, che i tempi sono già abbastanza complicati così.

A 25 km da Vezzano, nel comune di Canossa, si trova la Collina dei Cavalli. Maneggio, agriturismo, luogo dove animali e umani vivono liberi, lontano da tutto. Per arrivarci si parcheggia dopo diversi chilometri a zig-zag a qualche centinaio di metri. Si supera un torrente a piedi, si entra in un altro mondo. Poco lontano, maestosa ed enigmatica, la Pietra di Bismantova presidia il territorio. Carlo e Tiziana sono i soci che hanno rilevato questo posto remoto, al fondo di una valle nascosta, e l’hanno fatto diventare quello che è: un punto di riferimento per le scuole dell’area, che ci portano i ragazzi a fare didattica, ma anche per le famiglie e i giovani. “Qui arrivano la mattina e se ne vanno a sera. Nessuno gli mette fretta, nessuno li fa alzare veloce da tavola”. Le grandi tavolate da rifugio ora sono tutte segmentate da paratie in plastica, dove vigeva la semplicità spartana e accogliente delle colline emiliane le norme anticovid lasciano un segno più netto. Affettando un salame Carlo dice: “Lo vedi, è invecchiato, questo andava mangiato due mesi fa. D’altronde, di roba ne abbiamo dovuta buttare tanta, è ovvio”. Naturalmente, alla Collina dei Cavalli non nascondono che i bordi del bicchiere mezzo pieno, di questo tempo folle, doloroso e inatteso. “La gente ha riscoperto il territorio, persone che non erano mai state qui hanno capito finalmente quanti posti belli ci siano a un passo da casa”. Carlo, del resto, lo ha capito per tempo. Avvocato esperto di questioni tributario, consulente della Coldiretti, da qualche anno ha deciso che il suo cammino di avvicinamento alla pensione di avvocato sarà “aiutato” dall’attività agricola, e dalla sua passione per i cavalli. Racconta l’arrivo della pandemia, un anno fa: “Noi già il 20 febbraio del 2020 abbiamo deciso di chiudere tutto, per sicurezza”. La riapertura estiva è coincisa con una vera e propria invasione. “Abbiamo perso un sacco di coperti, ovviamente, e abbiamo rimediato servendo anche fuori, sotto la tettoia che vedi laggiù”. Un centinaio di metri in discesa andando, e in salita tornando, “che certo non agevolano il lavoro dei camerieri” sorride Carlo. La stagione che arriva promette altri pienoni, altra voglia di stare all’aperto in sicurezza non lontano dalle proprie case. “Ma alcune cose che per noi erano un punto di forza non si possono fare più. Non possiamo sellare i cavalli per far fare un giro ai bambini, ad esempio. E sono ovviamente sospese le gite delle scuole. La soddisfazione dei bambini e degli insegnanti per una giornata passata qui è una delle cose che mi manca di più”.

Un assalto, quello ai luoghi “vicini” e mai conosciuti, che è un classico in tutte le campagne e le montagne italiane, in questi mesi pandemici. Gli operatori della montagna incontrati in questi mesi raccontano tutti, più o meno, la stessa storia. Non fanno eccezioni i nuovi gestori del Rifugio, due ragazzi, Enrico ed Emanuele, di 36 e 37 anni e una ragazza, Costanza, pasticceria di 26. “Abbiamo vinto il bando CAI a fine 2019, ed è iniziata la nostra gestione con la primavera inoltrata del 2020…”. Un momento fortunatissimo, non c’è che dire. A loro non sono toccati indennizzi o ristori di nessun tipo, “perché erano commisurati sulla perdita di fatturato rispetto al 2019 e, appunto, la nostra attività iniziava nel 2020…”. Estate e inverno, quando si è potuto aprire, “ci siamo trovati sempre con la coda fuori, e con la difficoltà di spiegare che non tutti potevano entrare, anzi. O anche di dover dire a persone che arrivavano convinte di poter dormire da noi che non c’era posto. Con tutti gli inconveniente del caso, dopo ora di cammino e altre che servivano per tornare alle loro macchine…”. In questo contesto, la fatica di stare dentro a un sistema di regole faticoso per tutti, ma che diventa assurdo per il contesto di un rifugio. “In zona arancione, ad esempio, potremmo anche rimanere aperti, in teoria. Ma in pratica possiamo fare solo asporto. In montagna, in inverno, l’asporto è difficile, diciamo così…”. Del resto, anche d’estate, con le persone presenti e sedute “ci siamo trovati spesso a dover fare un po’ i carabinieri, a spiegare che tutti attaccati non si poteva stare e a sentirci rispondere che in un posto così scomodo nessuno sarebbe venuto a controllare”.

L’ultima tappa della nostra risalita è proprio in cima all’Emilia e alla Provincia di Reggio. Dove finisce la regione, in realtà, e dove declina verso la Toscana e la liguria. “Chi ha la seconda casa qui, infatti, spesso non è emiliano ma toscano o ligure”. Un’altra montagna, “minore” per gli appassionati della neve, eppure piena di fascino, di storia, di successo. L’Appennino emiliano, in fondo, è la terra di Zeno Colò e di Alberto Tomba, due monumenti dello sci mondiale. Ma anche di Giuliano Razzoli, nativo di Castelnuovo ne’ Monti, ultimo uomo italiano a vincere un oro olimpico nel 2010.

A parlare è Marco Giannarelli, proprietario degli impianti del comprensorio sciistico di Cerreto Laghi, un mare di neve quest’anno, e un’esposizione a nord da sempre favorevole allo sci fino a primavera inoltrata. Solo che non si può, e Cerreto avrà probabilmente l’aspetto da cittadina fantasma che abbiamo trovato noi, visitandola nel pieno di una stagione interrotta prima ancora di nascere. “Anche perché” prosegue Giannarelli “qui risiedono stabilmente cento persone, ma nei momenti di alta stagione, per esempio verso capodanno, arrivano ad esserci 7000, anche 8000 visitatori”. Gli appartamenti sono 1700 e ben si capisce quanto, per lunghi tratti dell’anno, il paese sia vuoto, a fronte di un numero di residenti così ridotto. “Attorno al 2010, qui, le case erano arrivate a valere addirittura 5 mila euro al metro”, prosegue Giannarelli ripercorrendo la storia di una località che è stata concepita e fondata, come luogo di villeggiatura, a partire dagli anni Cinquanta. “La scorsa estate abbiamo effettivamente avuto accessi in quantità, come non ne ricordavamo. Per dire, abbiamo staccato ventimila biglietti alla seggiovia, il doppio del recente passato nello stesso periodo. Poi ci sono molte iniziative ormai consolidate, penso al campionato Mondiale del fungo, che ogni anno porta qui appassionati ed esperti da tutto il mondo. Quando si poteva ed eravamo in giallo, c’era chi saliva a ciaspolare, a camminare, o in bici. Ma purtroppo, senza lo sci non si riesce a muovere la massa di persone che serve per far vivere davvero l’economia turistica fatta di alberghi, ristoranti e di tutti coloro che lavorano in una comunità come questa”.

Scendendo a valle, e attraversando Castelnovo ne’ Monti, mi raccontano la storia dell’ospedale del più grande centro della valle. Tre anni fa, in un progetto di riassetto che riguardo la sanità regionale, chiuse il punto nascite della cittadina. Proteste e polemiche politiche non mancarono, anche perché chi dice di voler combattere lo spopolamento delle zone interne deve spiegare come si può raggiungere l’obiettivo se nelle zone interne non si riesce neppure a nascere. Ci sono storie, recenti, che ci ricordano che la vita umana a volte è perfino più testarda degli umani. Una bimba, alla fine, ha dovuto nascere, lassù. In questa fotografia sta forse una delle dissolvenze di lungo periodo che dovremo guardare anche, soprattutto, nel dopo-Covid, quando sarà. Un paese costruito su rituali, bisogni e mercati che dovranno comunque ripensarsi, inderogabilmente. Non sarà facile, eppure sarà indispensabile.

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