Partiti e politici

Vi devo una spiegazione

9 Novembre 2016

Proprio oggi, subito dopo la vittoria di Trump (fatto di portata epocale), e dopo aver deciso di dimettermi da un ruolo politico in un partito (fatto di scarsa rilevanza storica), sento l’esigenza di spiegarmi meglio sui ragionamenti di fondo che ho provato a fare in più di 3 anni di impegno politico. I passaggi politici, per semplificare la lettura, li metterò in grassetto 🙂

Parto da lontano, parto da Burton Weisbrod, che nel 1978 scrisse un libro di grande interesse dal titotolo “The Voluntary Nonprofit Sector: An Economic Analysis”, svolgendo un’analisi circa la nascita, all’interno dell’economia capitalista, di una forma di economia non orientata al profitto.

 

L’autore si pone la domanda del come sia nata questa forma organizzativa non profit e per dare una risposta si rifà al teorema dell’elettore mediano, che è stato formulato da Duncan Black in un articolo del 1948 (On the Rationale of Group Decision-making) e poi di nuovo nel suo libro del 1958, The Theory of Committees and Elections. L’idea che le preferenze dei cittadini possano essere rappresentate come una curva normale, al cui centro si vadano a disporre le preferenze mediane e, sempre in quel centro, si possano ritrovare la maggior parte delle preferenze, garantendo quindi la possibilità di costruire una maggioranza, porta il policy maker alla costruzione di politiche pubbliche e all’erogazione di servizi pubblici in risposta alle preferenze di quella maggioranza costituitasi intorno alle preferenze mediane.

Ciò lascia fuori dai servizi pubblici quote di popolazione, che tenderanno a disporsi lungo le code della curva. Da qui nasce la teoria dell’eterogeneità sociale legata alle forme organizzative non profit: al crescere della eterogeneità delle preferenze di una società, crescerà la necessità di dare vita a forme organizzative diverse in grado di soddisfarle.

Quindi, secondo Weisbrod, il settore non profit nasce e si sviluppa per offrire quei beni e quei servizi, intesi in senso ampio anche come servizi di rappresentanza e di advocacy, che il settore pubblico non è in grado o non è intenzionato ad offrire ad alcune fasce di popolazione, in quanto non indispensabili per la costruzione della maggioranza elettorale, e che il settore  privato for profit non è orientato a soddisfare perchè non produce quella tipologia di beni e servizi che gli consentono di raggiungere l’obiettivo di reallizare il (massimo) profitto.

Tale rappresentazione, dunque, ripropone in scala aggregata il meccanismo di separazione che notiamo quando analizzando le logiche produttive dell’impresa for profit, generando un dentro e un fuori. (Da notare: per questo, quando mi è capitato di occuparmene in politica, ho sempre tentato di aprire alle imprese secondo un approccio diverso, quello della triplice sostenibilità per mettere al centro non la dicotomia profit-non profit, ma il valore generato nelle dimensioni sociali, ambientali ed economiche).

Il dentro è rappresentato da quella quota di cittadini capaci di influenzare lo stato, per quel che concerne la costruzione di politiche pubbliche e l’erogazione di servizi pubblici, e il mercato, per quel che concerne i loro comportamenti di consumo che influiscono sulla capacità di profitto delle imprese.  Tali cittadini, quindi, saranno tendenzialmente riscontrabili attraverso il tasso di partecipazione al voto e il tasso di occupazione.

Il fuori, invece, è caratterizzato da gruppi di cittadini che si ritroveranno espulsi dai processi democratici e dai processi produttivi. Ad essi, principalmente, si rivolge questo settore definito terzo o non profit, tentando forme di aggregazione che siano diverse da quelle tipiche del mercato (per questo una delle denominazioni è organizzazione non profit) e da quelle tipiche delle organizzazioni pubbliche (per questo un’altra denominazione frequente è organizzazione non governativa). Il suo definirsi terzo, quindi, indica la non appartenenza alle logiche nè di Stato, nè di mercato, sottolineando una diversità intrinseca e distintiva che ne segna l’identità e, di conseguenza, le logiche manageriali, organizzative e la governance.

La crisi degli anni 2007-2008, e le conseguenti reazioni dei Governi, hanno segnato una esplosione dell’equilibrio fra il dentro e il fuori, segnando un considerevole incremento del fuori, ovvero delle quote di cittadini non inclusi nei processi produttivi e democratici. A dimostrazione di ciò basti osservare l’andamento delle dinamiche occupazionali, da un lato, e il tasso di partecipazione al voto. A questi, con fatica e scarso successo, abbiamo tentato di riferirci quando parlavamo del “nuovo mondo” (primo politicamp), delle praterie non ascoltate e non rappresentate  e dalla necessità di costruire una nuova coalizione sociale che non partisse dai gruppi dirigenti (vedi esperienza Landini and co), ma dai bisogni e dalle “vie possibili” per trovare soluzioni (con progetti chiari e definiti) collaborative ed concepire che “l’uscita dal fuori” potesse avvenire solo “insieme”.

Crisi economica ed occupazionale, dunque, ma anche crisi politica e democratica, con fenomeni di disaffezione dai corpi intermedi che hanno gestito la funzione di rappresentanza e la costituzione di ciò che Emanuele Ferragina chiama “Maggioranza Invisibile” (abbiamo presentato il suo libro, con grande interesse): una maggioranza costituita da esclusi dai processi decisionali sia nel campo economico sia nel campo delle scelte collettive. Il movimento “Occupy Wall Street” non a caso indicava come slogan comunicativo la frase “we are 99%”, indicando che la grande maggioranza di cittadini è fuori dai processi core della nostra epoca e che, la percezione di inutilità della politica (segnalata da Stefano Feltri nel libro “La politica non serve a niente”) tende ad allontanare.

 

Il fenomeno dell’aumento delle quote di cittadini non inclusi nei processi democratici pone una sfida enorme alla democrazia rappresentativa: può essa perdurare puntando sulla rappresentanza degli inclusi? E se no, come può immaginare di ricostruire una capacità di dialogo, prima che di rappresentanza, con coloro i quali sono fuori?

La forma partito appare in crisi da oltre un decennio e l’emersione di leadership personalistiche, nel migliore dei casi, o demagogiche, nei casi peggiori, mostra i rischi di una democrazia priva di processi corali di ingaggio e selezione di classe dirigente. La grande attenzione riservata ai sondaggi d’opinione, alle indagini circa lo stato di consenso e al gradimento dei leader è indice di una debolezza profonda, che consiste nell’aver perso il radicamento nella società. I partiti, in sintesi, sono rimasti dentro mentre i loro iscritti ed elettori si sono trovati fuori. Partiti dentro e popolo fuori, insomma, secondo una dinamica per certi versi simile, ma con degli elementi specifici di caratterizzazione, rispetto a quella che ha investito il ruolo dei Sindacati, dove le organizzazioni sono rimaste dentro e i lavoratori si sono trovati fuori, espulsi.

Ciò ha determinato la crisi della rappresentanza, in primis, e la necessità di ricostruire forme di collegamento che non abbiano come unico e principale obiettivo quello di conquistare la possibilità immediata di Governo, ma che sappiano partire dalla ricostruzione di una riconoscibilità fra organizzazioni e cittadini, un legame di senso in una visione di società che riesca a riappassionare il sentire comune e offra la prospettiva della riappropriazione delle possibilità di incidere sulla determinazione della propria esistenza.

Tale analisi ci sposta immediatamente sul rapporto fra partiti e Governo, dove l’indistinguibilità e la progressiva omologazione fra i soggetti politici ha prodotto la creazione di governi costituiti da coalizioni larghissime, chiamate appunto Grosse Koalition, o da larghe intese. Riportando tale fenomeno nella nostra analisi, dunque, i partiti rimasti dentro, riuscendo a rappresentare quote sempre inferiori di popolazione, tendono ad accorpare la rappresentanza pur di costituire una maggioranza e garantire la governabilità.

Per questo siamo usciti dal PD, per questo abbiamo dato vita ad un soggetto politico con un nome tanto bello e un simbolo tanto appassionante, che sarà sempre tatuato sul mio cuore.

Tale atteggiamento, tuttavia, sta portando alla crescita di soggetti politici che, posizionandosi sul limbo fra il dentro e il fuori, vedono accrescere i propri consensi sulla base di narrazioni di rancore, di rifiuto del dentro, di rivendicazione disorganica e, molto spesso, limitata a sentimenti di invidia sociale più che di innovazione democratica. (innovazione democratica che non ha nulla a che vedere con la piramide rovesciata di recente concettualizzazione da parte di qualcuno).

I Governi, con le politiche di austerità post 2007, hanno incrementato una dinamica che era già in corso e, se si considera il venir meno del ruolo dei corpi intermedi quali connettori sociali, si sono trovati in condizioni di isolamento istituzionale anche sulla base delle linee guida costruite a livello sovra nazionale.

Basti citare, su tutti, il monito dell’OECD che è sintetizzabile nell’espressione “to do more with less”, fare di più con meno, che esprime la volontà di migliorare l’efficacia e l’efficienza della produzione di beni e servizi pubblici per rispondere con gli strumenti noti agli effetti della crisi, puntando a minimizzarne i costi sociali da un lato e a preservare i vincoli di finanza pubblica dall’altro.

Ciò che non viene contemplato nell’impostazione di queste linee guida, da cui poi discendono le strategie di spending review messe in atto dai Governi, è il mutato assetto sociale e la conseguente impossibilità di riportare la società ad equilibri precedenti attraverso un miglioramento di produttività del settore pubblico. Il passaggio di quote di cittadini dal dentro al fuori ha anche il segno della fuoriuscita della conoscenza dei bisogni, della consapevolezza delle priorità e, dunque, della perdita di quel legame fra esistenze e decisioni di cui si è parlato in precedenza.

Da qui quindi la necessità di ripensare il ruolo dello Stato e delle sue Istituzioni. Su queste basi mi sono occupato di riforma della PA, scrivendo il testo della mozione del PD legata a Pippo Civati e poi continuando a inserire questi elementi in ogni possibile riferimento al ripensamento dello Stato.

Se gran parte dei cittadini è fuori dai processi istituzionali, se con essi si è persa la consapevolezza dei bisogni, il modo di agire classico della PA risulta spiazzato. La mutevolezza del contesto, ad esempio, priva di senso i processi di pianificazione strategica determinati dall’interno delle stesse istituzioni e apre la prospettiva di una innovazione profonda dei processi di identificazione dei bisogni, programmazione delle strategie e delle azioni, produzione e gestione dei beni e servizi, valutazione e rendicontazione dei risultati e degli impatti.

La parola d’ordine, o meglio il suffisso prevalente, appare essere il co-.

Co disegno delle politiche, co-produzione e co-gestione dei beni e servizi, co-valutazione dei risultati e degli impatti, dunque, per riportare la gestione della cosa pubblica come cosa co-mune. Non a caso va crescendo nel tempo lo sforzo dei policy maker più attenti ai processi di partecipazione e collaborazione continua con i cittadini, mettendo al centro dell’agire pubblico il concetto di apertura (basti citare il pregevole lavoro condotto da Christian Iaione e altri che, attraverso il Laboratorio per la Governance dei Beni Comuni, sta portando avanti una sperimentazione innanzitutto culturale nell’accompagnare le PA e i territori verso l’adozione di processi collaborativi orientati alla generazione di valore).

E da qui, quindi, l’idea di Contaci, che mi ha sorpreso perché mi ha mostrato che il co- era una questione sentitissima da altri che avevano avuto precedenti esperienze politiche, così come da ragazzi che alla politica non si erano mai avvicinati. 

Open Government, dunque, non indica soltanto la necessità di trasparenza e di accountability.

Questi principi, seppur fondamentali per il mantenimento dei livelli di fiducia, sembrano non essere sufficienti in quanto non capaci di ricomporre in profondità la frattura profonda prodottasi fra cittadini e istituzioni: non basta, dunque, raccontare fedelmente ed in modo trasparente le attività e le modalità di impiego delle risorse collettive, occorre quella capacità supplementare di coinvolgere nella costruzione di quelle stesse attività e nella scelta di impiego di quelle risorse.

Non tanto e non più  “to do mo more with less”, dunque, quanto to co more with less, favorire maggiore collaborazione, riavvicinare il dentro e il fuori intorno a progetti che esprimano in modo chiaro gli obiettivi in termini di impatti generabili,  il disegno di governanrce e di redistribuzione del valore che si intende generare.

Ricordo che proprio su questi temi organizzai un incontro fra il fondatore di Possibile e i più brillanti innovatori sociali, quello che sperimentano davvero sul campo e con le comunità. Da lì emerse il “Manifesto di Calvanico”. 

Le strategie di spending review, quindi, richiederebbero una profonda rivisitazione.

Innanzitutto vi è una questione di senso del termine: rivisione della spesa non equivale a taglio della spesa.

Il taglio può essere una delle forme per rivedere la spesa, ma la revisione prevede molte altre forme di intervento, come la rimodulazione, il cambiamento degli orizzonti temporali, il cambiamento delle logiche di monitoraggio e valutazione.

Inoltre, ed è il punto su cui si dovrebbe riflettere di più, per poter prendere decisioni occorrono evidenze. Una bellissima frase di Taleb racchiude bene il concetto: the absence of evidence is not the eivdence of absence.

E invece nei nosti processi di spending review sembra proprio che si confonda l’assenza di evidenze con una evidenza di assenze. Per essere chiari: ad oggi non abbiamo informazioni sufficienti circa gli effetti della spesa, o, per dirla meglio, circa gli impatti che le decisioni di spesa generano su diverse dimensioni critiche della società.

Ciò è testimoniato dalla grande difficoltà di attuazione delle diverse riforme della PA che hanno tentato di inserire elementi di valutazione degli impatti, provando ad accendere la luce non tanto e non solo sugli output delle amministrazioni quanto sugli outcome.

Il fallimento di questi tentativi è stato sancito dalle stesse istituzioni preposte a presidio dell’attuazione delle riforme (da ultimo la Commissione Indipendente per la Valutazione, Integrità e Trasparenza, più nota come Civit) e rende i processi di spending review simili a delle operazioni chirurgiche condotte senza avere dati circa i valori del paziente.

Senza tali informazioni, dunque, il rischio di fallire è molto, ma come è possibile avere quelle informazioni se il rapporto fra Istituzioni e cittadini si fa sempre più distante?

Su queste basi scrissi l’idea di una innovation review, contrapposta alla spending review classica che definimmo come “eterno deja vu).

Ecco che, quindi, la fuoriuscita dei cittadini incide sulle strategie dei governi, compromettendo la loro capacità di analizzare il tracciato che collega le decisioni di policy e il loro impatto sulla vita collettiva.

Il co more with less, dunque, consentirebbe di ridurre questo gap, di ricucire uno strappo che rende ad oggi l’agire pubblico un decidere cieco.

Ecco da cosa nasceva, per chiudere, l’idea di costruire le “Vie Possibili”, ed ecco il ragionamento di fondo che mi ha portato ad innescare “Contaci”. Ma, cosa più importante, ecco cosa vi dovevo: una spiegazione del fondamento logico (una parte) su cui ho provato ad impostare il mio impegno politico.
Per correttezza, per cultura, per metodo, credo sia giusto spiegarsi portando a conoscenza le ragioni del proprio operato, perchè non possiamo pretendere che a dar conto siano sempre e prima gli altri.

Perché così, a mio avviso, fa una persona che assume un impegno con altre persone e che viene, per quello, definito “dirigente”.

 

Un abbraccio a tutti

 

 

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