Partiti e politici
Vezzi pubblici e private virtù: così parlò Nichi Vendola
Sarà stato un caso o una scelta precisa quella di pubblicare l’intervista di Nichi Vendola sulle gioie (tante) e le difficoltà (poche) della paternità a pochi giorni dalla strage di Orlando?
Repubblica recentemente non manca di sorprendere e anche stavolta l’effetto straniamento è servito.
Mentre molti in Italia (tra cui il sottoscritto) continuano a interrogarsi se la vita di un omosessuale valga meno di quella di un eterosessuale, il glorioso quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ci propina un acquarello famigliare con protagonista il “mammo” transfuga più famoso di Italia alle prese con fasciatoi e tettarelle, che tra una poppata e un cambio di pannolino spalanca le porte della sua nuova vita di genitore gay appagato di un figlio desiderato, concepito grazie alla pratica legalissima (in Canada) della maternità surrogata.
Il piccolo, figlio biologico del compagno italo canadese, è nato in California dove “la legge consente di scrivere ciò che vuoi.”
Parole e musica appartengono all’ altro papà, fondatore e per anni unico dominus di Sel, la formazione politica del: “C’è del nuovo a sinistra”.
In questa intervista, sia chiaro fin da subito, non emerge nulla o quasi del passato politico del protagonista che pare essere stato sciolto in un consapevole, ostinato oblio, ma che, forse inopinatamente, ancora nel nostro paese più di uno ricorda.
La legge che conta è diventata quella che docile si fa aggirare per assecondare un obbiettivo o un desiderio personale, con buona pace di quel rispetto della legalità che tante piazze antiberlusconiane aveva infiammato.
Il piccolo Tobia, figlio di tre paesi e di due mondi, potrà godere di più tutele e di ben “tre passaporti”: più o meno come i bambini dei rifugiati politici fermati ai confini dell’Europa anche essi nel cuore e negli occhi di ogni elettore di sinistra che si rispetti.
Del resto non si può lottare tutta la vita contro le iniquità senza alla fine accorgersi che le ingiustizie sono più facili da condannare se appartengono ad altri: l’importante è che, al momento giusto, a scansarle sia tu.
Vendola tornerà in Italia (anche se non è dato ancora sapere se risiederà a Roma, a Terlizzi o se deciderà di tornarsene ancora nella civilissima Montreal) ma non vorrà fare “il testimonial di una battaglia di civiltà”, del resto lui si è già “battuto per i diritti civili per tutta la vita” ed ha vissuto sulla sua pelle la vergogna per gli insulti sulla sua sessualità.
Non credo che la civiltà per evolversi abbia bisogno di testimonial che rappresentano la sua faccia plastificata e liftata.
Le battaglie sociali si incardinano su valori e principi che chiedono coerenza e che la coerenza la devono rievocare. Soprattutto ora. Soprattutto in questa fase storica dove avanzano povertà materiale e spirituale, dove si muore per le proprie inclinazioni sessuali o perché solo si è nati in un paese senza futuro.
Vendola su questo fronte può stare sereno. Il suo non è un esempio da seguire, per alcuni (pochi) potrebbe essere l’erba di un vicino da invidiare, per molti, auspicabilmente, una parabola esistenziale fortunata di cui bellamente fregarsene.
Non ce l’ha, lo stanco leader barricadero ormai dedito solo al suo lessico familiare, con la gente “per bene” che si è trovata spiazzata dal suo anticonformismo morale.
A questa va la sua “radical chiccosissima” comprensione.
Peccato che lo stesso non si accorga che le persone che sta assolvendo non siano poi così “per bene” ma solo forse “perbeniste”: sono quelle che sanno trovare la conferma di aver capito tutto (come Vendola del resto) nella contemplazione estatica del quadretto a tinte pastello che questo monologo ci piazza davanti agli occhi.
Esistono però anche le persone davvero per bene che con garbo e senza pregiudizi continuano ad avanzare alcune domande sulla opportunità di questa narrazione esibita e sulla coerenza ormai inesistente fra la sfera pubblica e quella privata.
Un leader politico ha il diritto di avere una vita sua ma dal momento che la stesse viene poi sbattuta in faccia agli altri, suona un po’ strano la pretesa di volerla vivere in pace.
Un leader politico di sinistra radicale poi non può derubricare saccentemente a “cattiveria” il j accuse che gli viene mosso, di essersi andato a comprare un pezzo di felicità all’estero smettendo di lottare per una società migliore, ma scegliendosene egoisticamente una su un catalogo che ai più appare impossibile anche solo consultare.
Un leader politico ha il dovere di mantenere una faticosa armonia fra il fare e il predicare, altrimenti produce disorientamento e sfiducia in chi, a torto o a ragione, in lui e nel suo progetto ha investito, anche solo in termini emotivi.
Un leader che ha usato la sua omosessualità come un grimaldello per scardinare il muro eretto dalla ipocrisia dei benpensanti non può mettersi a “benpensare” a sua volta solo perché dalla teoria generale siamo repentinamente passati alla pratica e alla sfera personale.
L’uomo può permettersi di rivendicare il suo diritto alla felicità.
Il politico ha a cuore la felicità di una comunità prima della sua, o forse semplicemente non sa più disgiungerle.
Se qualcuno quindi dovesse mai passare di la’ e non sciogliersi in elogi per la “casetta in Canada” non ci sarebbe da stupirsi.
Al politico di razza, ammesso che ancora ce ne siano, non chiediamo di raccontarsi e di esibirsi ma di rappresentarci e di raccontarci; in questa narrazione che rasenta il melenso non ci può essere respiro collettivo, nessun processo di immedesimazione, solo una osservazione di qualcosa di altro, lontano da noi, che con la nostra faticosa quotidianità non ha nulla da spartire.
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