Partiti e politici
Valditara, la tua riforma è un fallimento
Continua l’accidentato percorso della cosiddetta riforma Valditara sull’istituzione di una filiera formativa tecnico-professionale che, detto in parole semplici, non significa altro che mandare in fabbrica il prima possibile i ragazzi che si iscrivono agli istituti tecnici e professionali. Il 21 dicembre la legge è stata approvata dalla Commissione Cultura della Camera, nel frattempo erano stati già approvati i decreti attuativi (di una legge non ancora approvata), e in gennaio ci sarà il passaggio al Senato. Entro il 12 gennaio le scuole dovranno scegliere se aderire alla sperimentazione di una legge per l’appunto ancora fantasma.
La riforma prevede il rilascio di “diplomini” a partire dal secondo anno, che permetterebbero di entrare subito nel mondo del lavoro e poi, dopo solo quattro anni, e non cinque, sarà possibile iscriversi alle ITS Academy, che danno diritto a una quarantina di crediti formativi, ovvero neanche la metà di quelli necessari per completare un eventuale primo anno di università.
Vorrei sembrare chiara ma mi rendo conto di essere sempre più oscura. Provo a spiegarmi in un altro modo. In Europa esiste un accordo tra i paesi membri che si chiama “Processo di Bologna“, secondo il quale tutti i cicli europei scolastici devono essere interoperabili, ovvero se studi in Svizzera ma poi ti trasferisci in Germania, il titolo di studio che hai ottenuto in Svizzera deve poter essere tradotto in un titolo di studio tedesco. Ovvio, chiaro, semplice.
Che cosa hanno fatto i paesi europei per adeguarsi a questo semplice principio di solido buon senso? Qualcuno, come la Spagna, ha uniformato i suoi cicli scolastici fino a 16 anni, dopo i quali i ragazzi devono decidere tra seguitare gli studi che li porteranno all’università oppure scelgono dei percorsi tecnici che possono portarli a diventare Tecnici superior, con un sistema di crediti formativi che consentono direttamente il passaggio all’università (per chi lo desidera, e solo in alcuni percorsi, ma secondo modalità già definite dal legislatore).
Altri paesi come la Germania hanno seguito invece una politica diversa, ovvero hanno lasciato inalterati i cicli scolastici, che prevedono molto presto la separazione tra chi seguirà una formazione tecnica e chi invece sembra destinato (secondo un sistema di valutazioni piuttosto discutibile) a professioni più nobili come per esempio il medico o l’ingegnere, ma hanno previsto per chi seguirà gli studi tecnici la possibilità di ottenere una laurea triennale o magistrale ed eventualmente un dottorato.
Persino i tedeschi, grandi fan della formazione professionale, hanno abolito il “Diplom”, che era il titolo di studio che si riceveva dopo aver seguito un corso di formazione superiore di tipo professionalizzante, e hanno istituito le lauree professionalizzanti, le cosiddette Fachhochschule, che fanno parte del sistema universitario tedesco e offrono titoli come il Master e il Bachelor degree (equivalenti alla laurea triennale e magistrale). Oggi nelle modernissime fabbriche tedesche gli operai specializzati sono laureati e guadagnano conseguentemente molto bene, sostenendo così la domanda interna tedesca e di fatto arricchendo il loro stesso paese, grazie alla possibilità di sostenere un tenore di vita relativamente elevato.
Adesso forse riuscirò a far capire meglio cos’ha fatto Valditara. Se n’è completamente fregato del Processo di Bologna e ha istituito un percorso che non ha nessun corrispettivo in Europa. Nella sua riforma, i ragazzi che seguiranno i corsi quadriennali dovranno entrare in fabbrica già a partire dal secondo anno di scuola, ovvero a 15 anni, fatto che tra le altre cose potrebbe essere considerato anche come un ritorno al lavoro minorile, al punto che il 7 dicembre, il CSPI, Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, ha bocciato il disegno di legge Valditara.
Non solo, sempre secondo la riforma Valditara, dopo i quattro anni dove i professori dei ragazzi saranno anche i loro istruttori nelle fabbriche, alle quali saranno “collegati” grazie alla bellezza di 400 ore di PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, ovvero stage non retribuiti). I ragazzi che vorranno continuare a studiare non prenderanno una laurea come i loro colleghi tedeschi, ma un pezzo di carta che non vale assolutamente nulla, in quanto elargito dalle ITS Academy, di cui peraltro i nostri baroni universitari nulla vogliono sapere, perchè ancora convinti dell’esistenza solo di un sapere “alto” (le lauree tradizionali) che non può mescolarsi con quello “basso” delle lauree professionalizzanti.
Perché allora Valditara ha prodotto un simile pasticcio come la sua riforma, quando sarebbe bastato fare un po’ di pressing sulle nostre università e seguire l’esempio dei colleghi tedeschi, istituendo le lauree professionalizzanti, che tra l’altro piacciono anche a Confindustria? Insomma, Valditara non avrebbe scontentato nessuno a fare una riforma fatta meglio, compresi i ragazzi che decidono di seguire un percorso tecnico ma vogliono ugualmente conseguire una laurea e non un diplomino valido solo in Italia.
Ma per dirla in un modo aziendalistico, a Valditara (e ai partiti del governo) manca la vision, ovvero la capacità di rappresentarsi un futuro che non sia esattamente uguale al presente. E il presente industriale dell’Italia, se vogliamo definirlo così, è quello di una potenza industriale che lavora in gran parte per la Germania. Noi siamo il VERO indotto industriale tedesco e direi che non vi è da parte di questo governo nessuna politica industriale per trasformare il tessuto produttivo italiano, fatto da piccole e medie imprese, con grosse difficoltà a seguire i colleghi tedeschi del campo della ricerca industriale, che in Germania viene sempre fatta sempre in collaborazione con l’università, in particolare i Politecnici collegati alle Fachhochschule. Per costruire reti industriali caratterizzate da soggetti più capaci di investire nell’innovazione, c’è bisogno di capitale umano, scusate l’espressione un po’ economicista, specializzato e ben formato. Ma Valditara sembra non saperlo.
Il capitale umano non è altro, in economia, che la massa dei lavoratori, considerata nel suo insieme, misurata in funzione della loro formazione culturale, tecnica, scientifica e professionale. Maggiore sarà la disponibilità di un “buon” capitale umano, e maggiore sarà la possibilità dei paesi di espandere le loro economie, anche grazie alla capacità, per le forze industriali del paese, di trovare lavoratori in grado di eseguire compiti sempre più complessi, che richiedono una buona dote di conoscenze, anche di tipo digitale (visto che le “macchine” continuano a essere sempre più automatizzate ma anche performanti).
L’industria tedesca, che non è certo composta da benefattori ma da industriali interessati al profitto, gradisce che i partiti politici al potere si occupino di formare lavoratori con competenze tecniche certificate da un titolo universitario. Uso il termine certificazione, perché dovrebbero essere proprio le università a certificare le competenze professionali dei lavoratori che verranno poi impiegati all’interno di un contesto industriale. Le certificazioni emesse dalle ITS Academy non valgono infatti assolutamente nulla: nessun ragazzo con un diploma ricevuto da una ITS Academy avrà la possibilità di trovarsi un lavoro all’estero, se non dopo avere dimostrato sul campo di avere le competenze che sostiene di avere.
Valditara quindi non fa nulla per migliorare la qualità del capitale umano italiano, anzi fa di tutto per peggiorarla, aumentando le ore che i ragazzi non studieranno perché devono andare in fabbrica a fare i PCTO. Ma non solo, grazie ai diplomini dati a partire dal secondo anno, che (in teoria) permetterebbero di trovare un lavoro, Valditara fa un tentativo patetico di migliorare la nostra posizione delle statistiche internazionali per quanto riguarda l’abbandono scolastico, fenomeno dalle proporzioni ancora elevatissime in Italia. Non vi sarebbe infatti più abbandono scolastico se i ragazzi a 16 anni vanno a lavorare con un “diplomino” del quale non si ritrova nessuna traccia nel sistema scolastico europeo.
Ma allora perché Valditara registra una tale mancanza di vision, ovvero non ha nessuna nessuna capacità di immaginare un futuro per i nostri figli, che non sia quello di andare a fare il saldatore in fabbrica, come Valditara aveva annunciato nel suo primo comunicato pubblico, in cui elencava le professioni richieste dalle aziende, tra cui appunto saldatori, operatori taglio laser, manutentori termoidraulici, montatori meccanici, operai edili specializzati?
Perché le élite italiane, e definire élite Valditara mi costa una certa fatica, hanno da sempre una visione assolutamente elitista della scuola italiana, divisa in due tronconi a partire dai 10 anni, sin dai tempi della riforma Casati del 1859, che poi è assolutamente identica alla Riforma Gentile del 1923, in cui i ragazzi venivano divisi tra chi seguirà gli studi e diventerà medico e ingegnere, e chi invece verrà avviato al lavoro. Difficile trovare differenze sostanziali tra la riforma Gentile e quella Casati: sono entrambe impostate sulla divisione netta tra chi merita di ricevere un’istruzione superiore e chi invece l’istruzione non la deve ricevere perché tanto andrà a lavorare.
Solo l’introduzione della scuola media unica nel 1962 modifica finalmente, spostandola avanti di 3 anni, l’età in cui i ragazzi devono fare una scelta: andare a lavorare, alla fine di un percorso scolastico di tipo tecnico, oppure iscriversi al liceo per proseguire fino all’università. Seguono quindi una serie di leggi, tra cui quella chiamata la “Codignola” del 1969, che permettono a tutti i ragazzi italiani di accedere all’università, anche dopo un percorso scolastico tecnico e professionale. Si direbbe così che le istituzioni italiane hanno finalmente messo in atto il principio costituzionale definito all’articolo 34: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Forse alcune righe sono state tirate un po’ in fretta, ma vale finalmente il principio che a nessuno è impedito l’acceso ai gradi superiori dell’istruzione.
Purtroppo, le statistiche pubblicate prima da Don Milani in “Lettera a una professoressa” e poi i vari studi studi della Banca d’Italia sull’argomento (da Piero Cipollone alla lectio magistralis di Mario Draghi sull’istruzione del 2006) hanno dimostrato che a scegliere, a 13 anni, tra i diversi corsi di studio non sono mai veramente i ragazzi, ma le condizioni sociali da cui provengono. I figli dei dottori diventeranno dottori, i figli dei lavoratori nelle fabbriche o dei contesti più svantaggiati seguiranno le orme meno fortunate dei loro genitori. Errore capitale, questo, anche dal punto di vista delle economie dei paesi, perchè il livello di istruzione e il PIL sono fortemente correlati. Aumentare il livello generale dell’istruzione (come avvenne nel caso della media unica del 1962) ha un effetto positivo sul reddito nazionale: più si studia, e più si diventa ricchi, non solo a livello personale, ma anche come nazione, e non solo a livello economico, ma anche a livello sociale. Il “capitale sociale” è infatti l’insieme delle istituzioni, le norme, eccetera, nelle quali i cittadini ripongono la loro fiducia, esercitando per esempio il diritto di voto, grazie agli strumenti di giudizio appresi a scuola.
I paesi del nord Europa ma anche in generale i paesi anglosassoni lavorano da sempre per cercare di ridurre la forbice sociale nell’istruzione, consentendo ai ragazzi più svantaggiati di seguire dei corsi di studio il più possibile avanzati, anche solo per il motivo “egoistico” di formare capitale umano di migliore qualità. L’Italia continua invece sulla strada di Casati e Gentile: sfornare capitale umano di cattiva qualità se sa che è destinato alle fabbriche, tant’è vero che abbiamo mancato un paio di rivoluzioni digitali, tra cui l’ultima relativa all’intelligenza artificiale, sulla quale sfido chiunque a trovare startup italiane con una qualche vaga possibilità di ottenere risultati simili a quelle situate negli Stati Uniti.
A questo vero e proprio dramma storico di una mancanza di vision delle nostre élite politiche, dobbiamo aggiungere un altro cronico problema italiano: le fabbriche pagano poco, nel senso che applicano i contratti nazionali di categoria (a volte neanche troppo male), ma poi neanche la contrattazione sindacale di secondo livello (spesso assente dalle aziende di piccole o medie dimensioni) riesce a far crescere i salari. Secondo la vulgata sull’argomento, la mancata crescita della produttività del lavoro sarebbe l’unica variabile a spiegare il fenomeno dei bassi salari in Italia, ma la questione è ben più complessa di così. Affronterò più avanti questo argomento. Il problema è che oggi un operaio metalmeccanico guadagna 1.200 euro al primo impiego e, dopo 30 anni, può essere rimasto fermo a quei 1.200 (motivo per cui sarà disposto ad accettare di fare MOLTI straordinari).
Anche se le paghe basse non sono l’unico motivo – ve ne sono molti altri – bisogna dire la verità: le fabbriche non sono più considerate dai ragazzi italiani un posto decente dove andare a lavorare. Dalle fabbriche c’è la fuga, tant’è vero che secondo i dati della CGIA di Mestre mancherebbe addirittura un milione di figure professionali che potrebbero trovare impiego nelle nostre industrie. Ma se entrate in una qualsiasi fabbrica del Veneto o della Lombardia, troverete soprattutto ragazzi e uomini stranieri, perché ai i prezzi offerti dagli imprenditori italiani, l’unico punto in cui la domanda e l’offerta si incrociano, tra i 1.000 e i 1.200 al mese, è quello della manodopera straniera, disposta ad accettare salari più bassi e soprattutto disposta a vivere in abitazioni più degradate.
Il fatto che i lavoratori stranieri percepiscano salari molto bassi significa tra l’altro che le case in cui abitano sono esposte a un degrado crescente, perché, non possiamo nascondercelo, la manutenzione degli immobili è costosa e spesso i lavoratori immigrati non se la possono permettere (e magari sono anche privi degli strumenti culturali per capire che fare manutenzione manterrebbe inalterato il valore del loro immobile). Non farla, invece, provoca una perdita di valore all’immobile dove si abita e dove abitano anche altre persone che magari sarebbero disposte a sostenere le spese di manutenzione, ma non lo fanno, perchè sanno che nessun’altro le pagherebbe.
Il risultato è che anche loro finiranno per abitare in immobili sempre più fatiscenti (e perderanno una grossa quota delle somme investite per sostenere l’acquisto dell’appartamento). E alla fine daranno la colpa del degrado ai lavoratori immigrati, che sono solo il “terminale” del problema: “salari bassi = abitazioni non manutenute = degrado delle periferie”, e magari voteranno per uno dei partiti contrari all’immigrazione, ma che di fatto sono i legali rappresentati di un’imprenditoria poco illuminata, che ha come unico obiettivo quello di “risparmiare” sul costo del lavoro, con l’effetto di spingere i lavoratori nazionali a cercare di “uscire” dai settori (le fabbriche) dove il lavoro è pagato troppo poco.
Cosa vuole fare la destra italiana di fronte a questo fenomeno, che peraltro non riguarda solamente noi, ma tutti i paesi industrializzati, che importano manodopera dall’estero perché i nazionali non vogliono più lavorare nelle fabbriche alle condizioni dei loro padri? L’attuale destra al governo vuole schiaffare a tutti i costi i nostri ragazzi in fabbrica, a 15 anni con i PCTO, a 16 anni con un diplomino, a 17 con un diploma ottenuto in un corso di studi uscito dal cappello di un cattivo prestigiatore, oppure a 21 con un altro diplomino rilasciato da un’ITS Academy.
La destra italiana non prende neanche vagamente in considerazione il fatto che sia necessario formare un buon capitale umano per far progredire l’economia di un paese. E un buon capitale umano è composto da persone capaci di esercitare i loro diritti di cittadini, e che quindi studiano italiano e storia esattamente come i loro fratelli che diventeranno medici o ingegneri. I cittadini che decideranno di andare a lavorare in fabbrica (in realtà non si può dire che saranno loro a decidere, ma sarà la loro classe sociale di provenienza a farlo, ci sono dimostrazioni statistiche al riguardo) potranno continuare degli studi professionalizzanti, ottenere una laurea professionale, ma pur sempre una laurea, valida in tutta Europa, e poi verranno anche pagati decentemente.
Se quindi fossi di destra, ma non lo sono, e volessi fermare quello che il ministro Lollobrigida e compagni chiamano “sostituzione etnica“, mi dedicherei alla formazione di buon capitale umano, spendendo il più possibile in istruzione, e cercherei di convincere gli imprenditori ad aprire il portafoglio, utilizzando degli strumenti di politica fiscale. Ma il problema di Valditara e Lollobrigida è proprio questo: vogliono frenare quelle che secondo loro sono invasioni barbariche di lavoratori diretti verso l’Italia per trovare un posto di lavoro in un’acciaieria, e mettere al loro posto un ragazzo italiano, magari a 16 anni, senza fare i conti con tutti gli argomenti che ho elencato, a cominciare dal fatto che la dignità di un lavoro in fabbrica deve essere sostenuta e nutrita da uno stipendio dignitoso.
Non solo, oggi, in una fabbrica moderna ci si può tranquillamente arrivare a 22 anni con una laurea professionalizzante, sperando di trovare dei bagni che non siano le vecchie turche puzzolenti delle fabbrichette italiane, ma delle vere e proprie toilette, situate in ambienti gradevoli, magari con l’aria condizionata quando si può, dove gli imprenditori investano nella loro azienda quello che hanno guadagnato, senza fare come Calisto Tanzi che aveva nascosto nelle soffitte di un paio di amici (si dice ignari) 100.000.000 di opere d’arte.
In un suo bel libro, “Poveri, noi“, Marco Revelli spiega come uno dei cronici problemi dell’industria italiana riguardi proprio il reinvestimento dei profitti. Se in Germania il reinvestimento dei profitti è soprattutto dedicato alla produzione industriale e all’innovazione, in Italia gli imprenditori preferiscono comprarsi una Ferrari, italiana per carità, ma pur sempre non destinata a migliorare le performance della loro struttura aziendale. Con un’imprenditoria così miope non si va quindi molto lontani, anche ammesso, ma non concesso, che Valditara riesca a mandare in fabbrica qualche sedicenne che poi magari vota (ignaro di tutto) per il suo partito.
Sembrerebbe invece che la risposta della destra sia di corto respiro: di fronte a problemi complessi come quelli delle migrazioni internazionali, dovute al fatto che i fattori produttivi, tra cui il capitale umano, si spostano per andare dove sono pagati di più, soprattutto adesso, in tempi di frontiere porose, facili da attraversare, con il risultato di livellare i salari mondiali in un fenomeno osmotico descritto in ogni manuale di microeconomia, la destra non punta a migliorare la qualità del capitale umano. Al contrario, la ridicola riforma Validità va nel senso esattamente contrario, peggiorando la qualità del capitale umano nazionale. Valditara si trova tra l’altro contro tutti i docenti che avrebbe voluto ingraziarsi per pochi euro, ma che sono costretti, prima del 12 gennaio, a presentare le domande di adesione a una sperimentazione di una riforma non ancora votata dal parlamento, e che finirà peggio di com’è cominciata. In nulla.
Bravissima, grazie per l’analisi approfondita e per aver puntualizzato l’inettitudine della classe dirigente.