Partiti e politici
Un secolo di macchiette
Ieri sera ho visto Propaganda live, che mi sa divertire tenendomi sul pezzo, ma questa volta, spenta la tele e testa sul cuscino, mi è salito un retrogusto amaro. Allora mi sono messo a leggere. Il libro che trionfa sul comodino in questi giorni è ‘Marcia su Roma e dintorni’, di Emilio Lussu. Prima edizione Einaudi del 1945. Lussu fa la prima guerra come ufficiale di fanteria, si merita più volte medaglia al Valor Militare e appena torna la pace, nel 1919, fonda il Partito sardo d’Azione. La sua generazione è quella – come lui stesso scrive nella prefazione – del fascismo della prima ora: molti dei suoi capi gli erano stati compagni d’infanzia, di scuola e di guerra. Persone a lui care, e viceversa, che vediamo passare da fieri liberali a fascisti al comando. Con una convinzione ballerina, però: quella di chi si è adeguato per continuare a contare, alcuni a combattere, altri perchè costretti dalle minacce esplicite. Il libro è formato da brevi capitoli che l’autore scrisse in quei mesi, con voce di cronista, coinvolto nei fatti, spesso suo malgrado; quasi pagine di un diario. Ma senza enfasi. Senza astio. Senza compiacimento. Lo leggessero tutti quelli che si dichiarano ancora fascisti, ma anche i tanti che trattano quel seme mai morto in modo folkloristico. Qui ci sono fatti, l’umore intorno alla sua nascita. Sono cento anni, quasi esatti. Il fascismo si svela per la sua natura vile e cialtrona, pomposa e opportunista oltre ogni limite. Tutto quello che va sotto il sostantivo “macchietta”. C’è anche la sua mano assassina, verso gli oppositori, ripetuta e spesso estemporanea, eppure è la voce macchietta che mi colpisce. E quando chiudo il libro insieme alle palpebre, la carrellata vista in tv mi ritorna in mente, inesorabile.
Così come Emilio Lussu aveva scritto questo suo libro pensando di rivolgersi “al pubblico francese e angloamericano”, che a quei tempi era il mondo, in queste ore l’Italia che viene elargita oltre confine ha i suoi protagonisti.
Il povero Attilio Fontana che si infila la mascherina in diretta social come se fosse una camicia di forza. L’altro veneto, suo pari grado leghista, che dichiara lapalissianamente che abbiamo tutti visto i cinesi mangiare topi vivi. Almeno bolliti, cazzo: no, vivi! Intanto il loro caporione si filma in presa carrello spesa, con respiro affannoso, invitando a venire in Italia come un buttadentro fuori dai ristoranti turistici. Il confronto schizofrenico tra il sovranismo e l’accattonaggio, che forse hanno la stesso seme.
Il suo giornale di riferimento che si dichiara libero (qui metteteci la faccina che preferite), aveva lanciato nel giro di pochi giorni, a caratteri cubitali, l’allarme rosso e il suo baùscia contrario. Cosa che mi ha ricordato la vecchietta a metà delle scale che non ricorda più se sta salendo o scendendo. Ma il pezzo numero uno l’ha prodotto Barbara D’Urso. Patinato al punto giusto, abbagliato dalle luci di scena, con il tono e l’intenzione della cara amica di famiglia, insegna come ci si lavano le mani. Lo so, lo abbiamo visto tutti, ma sono crudele e voglio tornarci. Mostrava alla telecamera, come se avesse davanti dei deficienti (cosa che accomuna un po’ tutti gli attori di questo mio grottesco elenco), oppure qualcuno che perso l’uso degli arti superiori dovesse reimparare a usarli.
Quelle sue mani che si sfiorano, palpano, stringono, scivolano, avevano un’intenzione didattica, e per questo oscena. Contenevano però una carica erotica, che non si era mai vista sulla tv generalista.
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