Partiti e politici

Un anno di Giorgia ci dice che la destra è qui per restare, e diverse altre cose

25 Settembre 2023

Quanto tempo vi sembra passato, dal 25 settembre dello scorso anno? Quanto pesano sulla vita di ciascuno, se messa nella montagna delle vite di altri 60 milioni di residenti in Italia, questi 365 giorni esatti, che ci separano dalla vittoria della “nuova” destra italiana, e dall’ascesa al potere di Giorgia Meloni, prima donna e prima erede della tradizione post-fascista divenuta presidente del consiglio? Gli anniversari servono apposta per misurare cosa è successo, cosa è cambiato, quali promesse sono state mantenute, quali disattese. Per capire in che modo, guardando indietro, si chiarisce la traiettoria di quel che abbiamo davanti. Ma anche – e questo è un esercizio che parlando di politica si fa sempre di meno – quanto e come la nostra vita è davvero cambiata, è stata riguardata e modificata, concretamente dalle decisioni di chi governa. Perchè, lo sappiamo bene, le analisi si concentrano sul destino della politica, dei politici, delle opposizioni, di maggioranze e opposizioni, mentre sempre meno e sempre con fatica si parla delle decisioni che poi, infine, cambiano o lasciano immutata la vita delle persone e delle società. Dopotutto la politica servirebbe a questo, però, e vale la pena almeno provarci, sapendo che anche l’analisi politicista serve a capire dove si potrà andare, e quali interessi e bisogni saranno rappresentati.

La vittoria elettorale della destra di Meloni compie dunque un anno, e l’azione di governo poco di meno, visto che il giuramento è avvenuto il 22 ottobre seguente. Un anno è un tempo congruo, dopo tutto, per capire dove si va, tanto più in un paese nel quale un anno è spesso la metà della vita di un governo, raramento di meno, e spesso invece di più. E dunque, dove sta andando Giorgia Meloni, e noi con lei? Chi ha la bontà di seguirmi sa che riavvolgere i nastri e risalire i fili è una passione quasi ossessiva. Cerco di farlo settimanalmente, o comunque con una certa regolarità, quando mi pare che ci siano momenti che vanno segnati sul calendario, per memorizzarli. È anche così che un anno intero non passa invano. Un anno iniziato occupandosi di sistemare le caselle di parlamento e governo, come ovvio a inizio legislatura, nel segno di una profonda continuità col tempo remoto e prossimo della quale Giorgia è orgogliosamente figlia. Lo si vide subito, con La Russa presidente del Senato, pagando a proprio rischio il debito con l’unico grande vecchio che aveva creduto a fratellini e fratellini d’Italia fin dall’inizio. Lo si vide poco dopo con la formazione del governo,  costruito su equilibri politici che riconoscevano vincitori e vinti alle elezioni ma anche, e soprattutto, la lunga continuità con il centrodestra di fondazione berlusconiana, avvenuta quando Meloni era ancora minorenne.

La prima parte della navigazione di governo e maggioranza, i primi mesi, sembrano improntati al tentativo di rassicurare, mandare qualche messaggio identitario, e fare meno che si può. C’era una manovra finanziaria da approvare in fretta e furia, e c’era la speranza di dati economici e congiunturali positivi, o molto positivi, all’orizzonte. Certo, c’era la tigre dell’inflazione, e il PNRR ancora tutto da capire, le risorse a disposizione della spesa erano poche e Giancarlo Giorgetti, ministro dell’economia più draghian-mattarellian-rigorista che salviniano, prometteva cordoni della borsa stretti e “no” come monosillabo preferito. Tuttavia, le attese di crescita economica sembravano permettere qualche timido sorriso e molto attendismo, in attesa di tempi migliori e in preparazione di un 2023 pre-elettorale che, se non cruciale, si annunciava già allora come significativo per gli equilibri di governo e maggioranza. Poche decisioni nette, il taglio al reddito di cittadinanza come vera bandiera programmatica in politica economica e sociale, e poco altro. Naturalmente rivendicando di aver “scelto”, ma in realtà avendolo fatto molto poco, lasciando alla corrente il compito di portare la nave, e sperando in tempi migliori.

Quelli che in effetti le previsioni macroeconomiche sembravano annunciare, ma poi non sono arrivati. La gelata sulla crescita; le faticose manovre e i continui aggiustamenti e riaggiustamenti sulla rotta per il PNRR; i tesoretti che si assottigliavano ad ogni ricalcolo; le falle nei conti che sembravano invece allargarsi, mano a mano che si soppesavano i lasciti dei bonus (si parla solo di quelli edilizi, ma non sono gli unici che pesano per miliardi e miliardi, ogni anno, anzi). Di fatto, il governo Meloni, mentre si avvicinava la fine del lungo e fortunato viaggio terreno di Silvio Berlusconi, si è trovato a fronteggiare un tempo in cui scegliere è diventato necessario e obbligatorio, non pensando a chissà quale rilancio, ma solo per trovare un modo di galleggiarre senza troppi traumi politici e sociali. La linea del tirare a campare è così risultata confermata e se possibile rafforzata, imputando alla contingenza presente ogni assenza strategica di visione o proposta per il futuro. Tenendo a bada con più fatica gli alleati, a cominciare da Salvini, rispetto a oppositori troppo impegnati a misurarsi tra di loro, e troppo piccoli presi singolarmente, per infastidire davvero una coalizione che pur non avendo mai raggiunto il 50% dei consensi nella società può solo decidere di farsi del male da sola, oppure continuerà a governare.

In questo quadro risaltano, come fiumi che attraversano una pianura, questioni grandi e piccoli, linee guida che spesso in realtà sono più alimenti per i rivoli della propaganda, che però danno continuità e identità all’anno che è passato e, ragionevolmente, a quelli che verranno. La prima parola chiave, la parola che torna come una terra promessa e spesso poi si muta in maledizione nella storia della politica italiana, è “riforme”. Quelle istituzionali, che passano per un cambiamento della Costituzione, anzitutto. Anche Giorgia Meloni non sembra aver rinunciato a questo viaggio, nel nome di un cambiamento che va nella direzione di maggior potere all’esecutivo e un rapporto più diretto tra elettorato ed esecutivo, con il presidente della Repubblica “a fare da garante”. Di più, al momento, è difficile capire e poter dire, data la fase embrionale del progetto e anche, soprattutto, del processo politico che eventualmente porterà i cambiamenti a diventare realtà. Certo è che, come già in passato, il bisogno di dire che si esiste si esprime spesso con l’idea di cambiare la Costituzione. Raramente – diciamo così – ha portato fortuna, e mai si è aperto un vero dibattitto su quanto fosse necessario, e in quale direzione.
Nello stesso cono di luce stanno altri progetti di riforma, certo minori rispetto all’idea di cambiare la Costituzione, ma non marginali nè per il ruolo identitario che svolgono all’interno di questo percorso politico, nè per la storia del nostro paese. Penso naturalmente alla riforma della Giustizia, altra araba fenice di ogni governo di centrodestra, dal 1994 in poi.
Non poi così diversa, anche se non riguarda riforme e innovazioni legislative proposte, è l’eterna discussione sui temi dell’immigrazione. Un tema epocale, che non smetterà di esserlo, e che per una strana sapienza del destino si ritorce contro chi l’ha sempre cavalcato dall’opposizione. Un fenomeno che è qui per restare, e la destra di governo sembra saperlo, quando autorizza ingressi per mezzomilione di persone nei prossimi tre anni. Ma che poi sembra dimenticarlo quando racconta di una strategia possibile per interrompere gli arrivi, come se fosse facile o anche solo possibile.

In questo orizzonte fatto di cose complicate e grandi stanno quelle più piccole e che, tuttavia, a volte sembrano impegnare i pensieri di chi governa e di chi fa politica non di meno, ma magari di più. Sta un circolo ristrettissimo di persone di cui Giorgia si fida, per il suo partito e per il suo governo, che è un problema politico, e non morale, come l’accusa di familismo finisce per essere sempre. Il problema principale non è quanti famigliari sono stati “piazzati” al partito, ma quanto è sana e solida una leadership che si fida solo di chi è così vicino. E che si sente, chissà per caso o per coincidenza storica, sempre assediata, come capita alle minoranze storicamente reiette che però, nel frattempo, sono diventate maggioranze silenziose e rappresentano pezzi ampi e trasversali di società. Aver paura dei pugnalamenti alle spalle di aompagni di viaggio e di partito rischia di far perdere di vista la prospettiva di un mondo più grande. La stessa questione vale, naturalmente, se, dopo un anno di opposizione, si guarda a Pd, Cinque Stelle e Azione e Italia Viva. Tralasciando dal discorso quest’ultima, dato che il suo leader gioca partite (doppie) tutte sue, per gli altri sarebbe il caso di capire se, assodato il permanere dello status di oppositori che hanno davanti, stanno ragionando seriamente su che paese vogliono guidare, e verso dove, o se solo sono interessati a capire come garantire sopravvivenza alla loro classe politica. Ne abbiamo parlato, e non è questa la sede, ma capiterà per forza di cose di tornarci, e anche a breve.

E dunque, per concludere, possiamo tornare al punto da cui siamo partiti. Cos’è cambiato, per gli italiani, in un anno di Giorgia? Hanno sentito e visto una nuova direzione un’impronta precisa, delle scelte politiche degne di questo aggettivo? Non parrebbe. Qualche polemica sull’Europa, ma in fondo sempre “con juicio”, qualche ritorno a discussioni novecentesche, il recente protagonismo di un generale sconosciuto diventato super star. E per il resto, il solito tran tran. Un paese e una società che non sembrano bramare grandi cambiamenti, al di fuori di pochi centri urbani attrattivi, che sembrano ignorare il resto del paese. La scommessa di Giorgia è che questo basti a durare a lungo. Forse è anche una scommessa ragionevole, almeno per lei e per la sua classe dirigente. Negli ultimi mesi, con l’orecchio poggiato a terra, di lontano si sentivano passi che non sembrano venire in pace. Ma forse a confonderci è stata la presa di campo, di spazio e voce del presidente Mattarella, sempre più spesso attento a fare da controcanto ordinato al disordine dell’agone politico. La situazione al momeno non fa nemmeno lontanamente prefigurare ipotesi alternative a questo governo, a questa maggioranza. Sembrano anzi davvero impossibili, come mai nelle scorse legislature. Nel caso improbabile le cose cambiassero, tuttavia, la costituzione affida ancora al Quirinale il compito di sperimentare nuove vie, altre formule. Forse anche questo ha reso Giorgia prudente fino all’immobilismo di fatto. Ma anche stare fermi, se il mare sale di tono, presenta i suoi pericoli.

 

 

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