Partiti e politici
Tutti i numeri che servono per capire davvero le elezioni politiche del 2018
Le elezioni politiche del 2018 hanno avuto due chiari vincitori, il M5S di Luigi Di Maio e la Lega di Salvini, e un grande sconfitto, il PD di Matteo Renzi. Poco meno di 33 milioni di italiani si sono espressi per imprimere un radicale cambiamento della classe dirigente, determinando un nuovo quadro politico che ha archiviato in modo inappellabile il ritorno della sinistra tradizionale, e reso ben più marginale del previsto Forza Italia di Berlusconi. Il nuovo sistema politico uscito il 4 marzo si incardina su una coalizione di centrodestra trainata da una Lega per la prima volta a vocazione nazionale, sul Movimento 5 Stelle unica forza capace di essere competitiva su tutto il territorio italiano, anche se in modo molto diverso tra le regioni che lo compongono, e il PD ormai tornato alle dimensioni dei Democratici di Sinistra, il più importante tra i partiti che l’avevano fondato.
1. Salvini al nord forte come Bossi e al Sud supera Fratelli d’Italia: così nasce il sorpasso su Berlusconi
Matteo Salvini ha trovato nel voto del 4 marzo la conferma fragorosa alla sua strategia di riposizionamento della Lega Nord. Il segretario del Carroccio ha colto la grande opportunità creatasi dopo le elezioni 2013, riempiendo lo spazio politico creatosi a destra di Berlusconi dopo la fallimentare fine delle ventennali leadership di Umberto Bossi e Gianfranco Fini. La Lega non più Nord, non più sindacato territoriale dell’area più ricca del Paese ma destra nazionalista che presenta le sue liste in ogni regione, ha sorpassato Forza Italia proprio grazie al Sud. Il partito di Salvini ha infatti ottenuto poco più di un milione di voti in più della formazione di Berlusconi alla Camera dei Deputati, poco più di cinque milioni e mezzo di consensi come l’AN del 1996, e questo margine è stato creato grazie alle basse ma non irrilevanti percentuali conquistate in ogni regione del Mezzogiorno. Dall’Abruzzo fino alla Sicilia la Lega ha raccolto 659.464 voti alla Camera dei Deputati, sorpassando sempre l’altro partito rivale a destra, Fratelli d’Italia. Se si conteggia anche il Lazio si arriva a 1.045.997 consensi espressi. Nel Sud, comprensivo del Lazio, la Lega ottiene una percentuale dell’8%, a tutto danno di Forza Italia, che passa dal 25,6% del Pdl del 2013 a un magro 17,5%, lontanissima dalle trionfali percentuali che Berlusconi aveva ottenuto nel Mezzogiorno fino al 2008. Al Nord la Lega sfonda, ritornando su percentuali simili a quelle già viste nel 2008 e sopratutto nel 1996, quando la Lega secessionista di Bossi si era affermata come primo partito in Lombardia, Veneto e Friuli Venezia-Giulia proprio come la versione nazionalista di Salvini, arrivata prima anche nella regione più autonomista d’Italia, il Trentino. Nella zona Rossa storicamente dominata dal Pci e dai suoi eredi, la Lega prende curiosamente gli stessi voti del Pdl nel 2013 in numeri assoluti (1 milione e 91 mila contro 1 milione e 87 mila)e conferma, aumentandole di poco, le percentuali in alta doppia cifra già osservate alle regionali di fine 2014 in Emilia-Romagna e della primavera 2015 in Toscana, Umbria e Marche, quando in questa parte d’Italia c’era già stato il primo sorpasso su Forza Italia, ora quasi doppiata. L’incremento maggiore rispetto al voto amministrativo di fine 2014 e 2015 avviene nelle due ormai ex regioni rosse più meridionali, Marche e Umbria, l’unica dove la Lega sorpassa la soglia psicologica del 20%. Senza l’esplosione al Sud, dove sono state più che raddoppiate le percentuali prese in Puglia e anche in Sicilia (dove era in lista con FdI) da Noi con Salvini, la sfida per la guida del centrodestra, vinta in modo nettissimo da Matteo Salvini, sarebbe finita probabilmente in un sostanziale pareggio, come rilevato dai sondaggisti.
2. M5S, l’unico partito nazionale
L’altro grande vincitore delle elezioni 2018 è Luigi Di Maio. Il nuovo capo politico del M5S porta la sua formazione ben oltre il 30% a livello nazionale. Nella storia dell’Italia repubblicana i Cinque Stelle diventano il quinto partito ad aver superato la soglia di poco meno di un terzo dei voti espressi dopo la Democrazia Cristiana, il Partito comunista italiano, il Popolo della Libertà e il Partito Democratico. Il Pci ci era però riuscito solo in due elezioni su undici svolte in quarant’anni (tre se si aggiunge anche il Fronte popolare insieme ai socialisti), il Pdl solo una volta, e tutte a due alle prima occasione, quando si erano uniti più partiti in liste sostanzialmente coalizionali, formazioni egemoni di poli che solo due anni prima avevano sfiorato il 50%. Il risultato del M5S è impressionante sotto ogni punto di vista: raccoglie oltre due milioni di voti in più rispetto al già clamoroso boom del 2013, e non scende praticamente in nessuna regione italiana sotto il 20%. Si tratta dell’unico partito ad avere un elevato consenso sul territorio nazionale. Il risultato dei Cinque Stelle non è omogeneo: il movimento guidato da Di Maio è sostanzialmente stabile nell’area più ricca del Paese rispetto a cinque anni fa – al Nord c’è un leggero calo in termini di voti assoluti, al Centro i 2 punti percentuali in più sono determinati dalla diminuzione dell’affluenza – mentre esplode al Sud, dove conquista la metà dei consensi, come mieteva la DC nel Mezzogiorno. La meridionalizzazione del M5S, già osservata nelle europee del 2014, diventa ancora più marcata, e clamorosa per intensità, visto che l’aumento di 2 milioni di voti ottenuto rispetto alle precedenti politiche è concentrato tutto al Sud. Per le ambizioni future di vittoria c’è però un evidente problema al Nord, dove il M5S è sconfitto dalla Lega, da sola, senza contare il contributo di FI e FDI, nelle due regioni più popolose, Lombardia e Veneto, così come in Friuli Venezia-Giulia e Trentino. Anche nelle due regioni settentrionali dove i Cinque Stelle sono il primo partito, Piemonte e Liguria, si nota un aspetto negativo: sono le uniche due regioni dove il M5S cala, insieme al Veneto, rispetto alle elezioni 2013. Anche nelle regioni Rosse il trionfo non è pieno: il crollo del PD e l’irrilevanza della sinistra di LeU non portano a incrementi significativi rispetto al 2013, con una percentuale superiore rispetto al dato nazionale acquisita solo nelle Marche, dove già cinque anni prima i Cinque Stelle avevano ottenuto il 32%.
3. M5S alla prova del governo di Roma e Torino: è davvero un flop?
Nelle più popolose città governate dal M5S i risultati sono contrastanti, ma univoci rispetto al dato nazionale: non si registra nessuna esplosione di consenso, cresciuto di circa 7 punti percentuali a livello nazionale rispetto al 2013, e oltre due milioni di voti assoluti. Nella Torino di Chiara Appendino si registra un calo percentuale di poco meno di due punti, pari a 17 mila voti assoluti in meno in confronto alle politiche di cinque anni fa, e sette mila voti in meno rispetto a quanto raccolto dal sindaco poi eletto al primo turno delle comunali del 2016. A Roma, governata da quasi 2 anni da Virginia Raggi, il M5S conferma i consensi raccolti alle scorse politiche, con un piccolo aumento: 439 mila voti nel 2018, 436 mila alle politiche 2013. Virginia Raggi aveva ottenuto 460 mila preferenze al primo turno delle comunali 2016, e come a Torino si registra una davvero minima flessione in termini assoluti. A Livorno si registra una sostanziale tenuta dei consensi in termini assoluti, una flessione di 300 voti, che si tramuta in un aumento in percentuale grazie al calo della partecipazione. Forte crescita invece rispetto ai voti raccolti alle amministrative 2014, oltre 10 mila in più. Dati comparabili a quelli di Livorno si registrano a Carrara come a Civitavecchia, mentre nella terza città più popolosa del Lazio, Guidonia, il M5S aumenta di due mila voti rispetto alle politiche 2013, con una sensibile crescita percentuale, sfiorando il 40%. Alle regionali del Lazio si è notato in tutte le città governate dal M5S un consistente flusso di voti verso Nicola Zingaretti, con un calo sensibile di Roberta Lombardi rispetto al voto politico, oscillante tra i 3 e i 7 punti percentuali. Al Sud anche dove i Cinque Stelle amministrano si rilevano aumenti di consenso, come succede in tutto il Mezzogiorno. Nella prima grande città conquistata dal M5S, Parma, si nota una flessione contenuta di 3 punti percentuali e 5 mila voti rispetto alle politiche 2013, un dato in decisa controtendenza sia sull’aumento nazionale sia sul più limitato incremento a livello regionale. + Europa ottiene un brillante 5%, poco meno del doppio rispetto alla media regionale, grazie all’appoggio del sindaco Federico Pizzarotti, il più importante tra gli “espulsi” del Cinque Stelle.
4. Il PD, il grande sconfitto
Il Partito Democratico è il grande sconfitto delle elezioni 2018. Alla Camera dei Deputati la formazione guidata dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha subito un consistente calo rispetto alle ultime politiche, con circa due milioni e mezzo di voti in meno rispetto al già deludente risultato del PD di Bersani, che diventa un crollo epocale se paragonato alle europee 2014. Il PD di Renzi da soli tre mesi a Palazzo Chigi e in piena luna di miele con l’elettorato aveva raccolto 11 milioni e 200 mila voti, un numero di consensi che neanche il M5S di Di Maio è in grado di ottenere, visto che si ferma a 10 milioni e 700 mila preferenze. Una flessione di cinque milioni di voti, praticamente un dimezzamento, ha pochi precedenti nella storia repubblicana. Benché la comparazione sia tra due elezioni politiche e non tra europee e politiche, il principale partito della sinistra italiana perse circa 4 milioni di voti tra il Pci del 1987 e il PDS del 1992, in buona parte però recuperati dai poco meno di 2 milioni e mezzo di Rifondazione comunista. I 6 milioni e 134 mila voti raccolti dal PD di Renzi nel 2018, sempre rimanendo nella storia del principale partito della sinistra italiana, sono 17 mila in meno rispetto al 16,57% conquistato dai Democratici di Sinistra nel 2001, quando trionfò la Casa della Libertà di Berlusconi. Da quella sconfitta si generò la spinta a unire le principali formazioni del centrosinistra, prima nell’Ulivo e poi nel PD, che nel 2018 in termini assoluti vale meno del peggior risultato di sempre di PDS e DS. Il Partito Democratico perde il 25% dei suoi voti assoluti al Nord, il 30% nelle ormai ex zone Rosse e il 40% al Sud rispetto agli 8 milioni e 650 mila presi da Bersani. Le perdite più contenute nell’Italia settentrionale consentono al PD di Renzi di superare il 20% solo a nord di Roma, in 6 regioni, mentre cinque anni fa il Partito Democratico avevo superato la soglia di un quinto dei voti espressi in quasi tutta Italia, con la sola eccezione di Sicilia e Puglia. Nel 2018 il PD non supera mai il 30% in nessuna regione, neppure in Toscana dove nel 2014 aveva preso il 56% alle europee. Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana in Emilia-Romagna il centrosinistra è superato da un’altra forza politica, il centrodestra. L’emorragia di consensi del PD è ancora più clamorosa se paragonata al risultato delle europee 20014. Al Nord la flessione è di circa 2 milioni di voti, da poco meno di 4 milioni e mezzo a poco meno di 2 milioni e mezzo, nelle zone Rosse il consenso del PD si dimezza in termini assoluti, da 2 milioni e 900 mila a un milione mezzo, mentre al Sud, Lazio compreso, il calo è comparabile. Si passa da 3 milioni e 800 mila voti a poco meno di un milione e 900 mila. In percentuali, e un po’ meno in voti assoluti, si nota come al Nord gli alleati del PD e in parte LeU tengano il centrosinistra su livelli comparabili al 2013, mentre nelle Zone Rosse e sopratutto al Sud il calo sia ben più drastico. Nel Mezzogiorno il maggior beneficiario del crollo del PD sono i Cinque Stelle, mentre l’esplosione al Centronord della Lega consente al centrodestra di tornare egemone al Nord, e di diventare la prima coalizione delle Zone rosse, che rimangono tali solo in termini relativi alle altre regioni, con l’eccezione delle Marche dove il centrosinistra va peggio anche rispetto a Lombardia e Piemonte. Solo in Toscana il centrosinistra sopravanza la coalizione guidata da Salvini, che prende complessivamente 4 punti percentuali in più rispetto al solo PD. Alle europee 2014 Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega Nord avevano preso circa 330 mila voti, un terzo rispetto al milione e 70 mila voti raccolti dal sindaco di Firenze appena diventato presidente del Consiglio.
5. La volatilità del voto ridisegna la geografia elettorale
Le elezioni del 2018 sembrano indicare l’affermazione di un nuovo bipolarismo, tra il centrodestra di Matteo Salvini e il M5S di Luigi Di Maio, che archivia il precedente basato sullo scontro tra la coalizione moderata di Silvio Berlusconi e il centrosinistra erede dei due principali partiti della Prima repubblica, Pci e Dc. Un bipolarismo cristallizzatosi anche a livello geografico, con il centrodestra largamente sopra al 40% al Nord, e il M5S prossimo al 50% nel Mezzogiorno. Unica zona dove rimane ancora il tripolarismo osservato nel 2013 sono le ormai ex regioni rosse, dove guida il centrodestra con 2 punti e mezzo di vantaggio sul centrosinistra – che solo 5 anni fa lo doppiava – e 5 punti e mezzo sul M5S, vicino a 30% ma in calo rispetto alla percentuale nazionale, conquistata nel 2013 e ora distante quasi 5 punti nell’Italia centrale. Appare però davvero prematuro pensare che il dato più rilevante delle elezioni del 2018 possa ridefinire la politica italiana nel futuro a medio e lungo termine. Lo dimostrano le stesse elezioni nazionali di quest’anno, caratterizzate da una significativa volatilità elettorale, la terza di sempre nell’Italia repubblicana, dopo che nel 2013 un terzo degli elettori aveva votato per liste come Cinque Stelle e Scelta Civica presenti per la prima volta.
Cinque anni fa PD e PDL valevano, sommati, 16 milioni di voti, 450 mila in meno rispetto alla somma di M5S e Lega nel 2018. I Cinque Stelle e il partito di Salvini hanno preso più di 6 milioni di voti, ovvero poco meno del 20% dei voti espressi, in più rispetto al 2013, mentre PD e Forza Italia sono complessivamente calati di circa 5 milioni e mezzi di preferenze. Il PD di Renzi, che arriva primo solo in alcuni collegi dell’ex zona rossa e in quelli centrali delle più popolose città italiane, è lo stesso partito guidato da medesimo leader che nel 2014 era arrivato primo in tutte le regioni d’Italia, e in 106 su 111 province della Repubblica. Dal 2008, quando Pdl e Pd erano arrivati sopra al 30% come precedentemente riuscito solo a DC e Pci, gli smottamenti elettorali sono continui, il segno più evidente delle trasformazioni sociali ed economiche provocate dalla doppia recessione seguita alla crisi finanziaria e a quella del debito sovrano europeo. Nel 2018, secondo la stima indicata da Salvatore Borghese su Youtrend, il 28% degli elettori ha cambiato partito, un dato inferiore solo al 2013, quando la volatilità fu pari al 39%, e al 1994, quando questo indice si assestò al 36,7%. Due elezioni nazionali consecutive caratterizzate da una volatilità così alta, intramezzate dalle europee dominate dal centrosinistra che valeva il doppio di centrodestra e M5S, evidenziano come il riallineamento politico sia più temporaneo che strutturale.
Un ulteriore elemento che invita alla cautela sulla prospettiva di lunghi cicli politici sono i relativamente limitati consensi in termini assoluti conquistati dal M5S e dalla Lega in confronto all’epoca recente. I Cinque Stelle si fermano a mezzo milione di voti in meno rispetto al PD di Renzi nel 2014, a più di un milione di voti dal PD di Veltroni 2008 e a circa 3 dal Pdl 2008, eguagliando quanto prese il Popolo della Libertà di Berlusconi alle europee 2009, che conquistò 40 mila preferenze in più rispetto ai Cinque Stelle di Di Maio. All’epoca quel risultato, in calo di due punti percentuali rispetto alle precedenti politiche e sensibilmente più basso rispetto al 40% annunciato dai sondaggi, fu giudicato una sconfitta. Il centrodestra di Matteo Salvini ottiene poco più di12 milioni di voti, 50 mila in più rispetto al PD 2008, e un milione e mezzo in meno rispetto al Pdl di Berlusconi e Fini. Nel 2006 Alleanza Nazionale e Lega presero 6 milioni e mezzo di voti, contro i circa 7 conquistati da Salvini e Giorgia Meloni dodici anni dopo. Le percentuali sensibilmente superiori sono determinate dal calo dell’affluenza, che però rischia di essere ingannevole, come successo nel 2014 col 41% del PD.
6. Il cuore della provincia fa vincere il centrodestra
Il bipolarismo geografico tra il Centronord conquistato dal centrodestra di Salvini e il Sud dominato dal M5S di Di Maio non è equilibrato dal punto di vista demografico, visto che sopra Roma vive ben più della metà della popolazione italiana. Dall’Abruzzo fino alle isole risiedono poco meno di 20 milioni di italiani, mentre sopra il Po ci sono quasi 25 milioni di persone, sparsi in più della metà, 4153, dei quasi 8 mila comuni italiani. La provincia settentrionale è la chiave del successo del centrodestra, grazie alla clamorosa affermazione della Lega di Salvini, le cui percentuali calano all’aumentare della densità abitativa. Il centrodestra supera il 40% che probabilmente gli avrebbe garantito una maggioranza assoluta in Parlamento, nei comuni al di sotto dei 10 mila abitanti, mentre i suoi consensi calano sotto al 30% solo nelle grandi città. Il M5S è la lista più votata nelle città tra i 20 e i 100 mila abitanti, dove risiede circa un terzo della popolazione italiana, mentre il tripolarismo tra M5S, PD e Cinque Stelle torna solo nelle città con più di 250 mila abitanti. Grazie alla provincia settentrionale il centrodestra è primo, per merito del fossato scavato con M5S e PD, il primo nettamente scattato di circa 15 punti, il secondo doppiato. Il Partito Democratico è competitivo solo nelle grandi aree metropolitane del Centronord, le uniche zone dove il centrosinistra tiene complessivamente le percentuali già deludenti raggiunte da Italia Bene Comune nel 2013, per quanto in calo a Bologna e Firenze. Sono i centri delle grandi città, dove risiede la fascia più benestante e istruita del Paese, a regalare al PD e ai suoi alleati le percentuali migliori, con una propensione al voto che diminuisce alla flessione del reddito. Un dato già osservato alle comunali del 2016, e confermato anche al referendum costituzionale del 4 dicembre. Anche +Europa ha ottenuto percentuali ben sopra la soglia del 3% poi mancata a livello nazionale sia a Camera che a Senato, nelle aree più ricche e istruite delle (poche) grandi città italiane, dove complessivamente vive circa il 15% della popolazione italiana.
7. Milano, da capitale del berlusconismo a ridotta del centrosinistra
Milano è una delle città dove il PD e il centrosinistra sono andate meglio. Nel capoluogo lombardo la coalizione guidata da Renzi ha migliorato il risultato del 2013, arrivando al 36%, circa 13 punti in più rispetto alla percentuale nazionale. Il centrodestra, che ha prevalso in tutte le elezioni politiche dal 1994 fino al 2008, ha sopravanzato il centrosinistra di soli 2 punti percentuali, un solo punto in più rispetto al 37% conquistato complessivamente. A Milano il PD ottiene 8 punti in più rispetto al dato nazionale, raddoppiando il vantaggio in termini relativi del 2013 e del 2014. Sia Bersani che Renzi avevano preso nella città amministrata da Giuliano Pisapia 4 punti in più rispetto alla percentuale nazionale. Lo spostamento di Milano verso il centrosinistra appare ormai consolidato, una trasformazione politica della metropoli che prima aveva lanciato la Lega Nord sulla scena nazionale e poi era stata per quasi vent’anni la roccaforte di Silvio Berlusconi. Nel 2006 l’Ulivo aveva preso il 29% a Milano, due punti in meno rispetto alla percentuale nazionale, mentre due anni dopo il PD di Veltroni aveva sfiorato il 34%, circa mezzo punto in più del dato delle politiche 2008. Il 2008 è l’anno in cui Milano perde definitivamente il carattere di roccaforte berlusconiana, visto che il PDL aveva ottenuto una percentuale, 36,9%, leggermente inferiore rispetto al dato nazionale. Da ormai 10 anni il centrodestra, in particolare la formazione guidata da Silvio Berlusconi, ottiene nella città che ha dominato la stessa percentuale conquistata a livello nazionale. Una tendenza osservata per la prima volta nel 2008, e confermata sia nel deludente 2013 che nel trionfante 2018. La Lega di Salvini, in termini relativi, cala nonostante l’impressionante crescita osservata in tutta Italia. Nella sua città il segretario leghista ottiene infatti lo 0,3 in meno rispetto al clamoroso 17,4 ottenuto a livello nazionale. Una tendenza negativa, visto che storicamente la Lega prendeva sempre qualche punto in più a Milano rispetto al dato nazionale: 2 punti in più nel 2013, 4 punti in più nel 2008, 1 punto in più nel 2006 e nel 2001, 2 punti in più nel 1996. Più marcata la flessione di Forza Italia, che nel 1996 otteneva a Milano 8 punti in più rispetto alla percentuale nazionale, mentre nel 2001 e nel 2006 era di 5 punti l’aumento rispetto al dato complessivo. Lo spostamento verso il centrosinistra di Milano nel 2018 è favorito dalla forte flessione del Movimento 5 Stelle, che nel capoluogo lombardo ottiene un deludente 18%, più di 14 punti in meno rispetto al quasi 33% conquistato da Di Maio alla Camera dei Deputati. Una flessione rispetto al 2013, quando il M5S aveva preso a Milano il 17%, 8 punti e mezzo in meno rispetto al clamoroso 25,5% ottenuto all’esordio.
In dieci anni, dunque, possiamo valutare il cambiamento radicale degli orientamenti elettorali degli italiani. Nel 2009, Pdl e PD rappresentavano il 70% del corpo elettorale, essendo votati da più di 25 milioni di italiani: l’emorragia di consensi, iniziata subito nel 2009, quando alle europee la contrazione complessiva fu di circa 10 punti percentuali, esplosa nel 2013 è proseguita nel 2018, con le europee 2014 con un carattere sempre più accentuato di “solitaria eccezione’.
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