Partiti e politici
Trump? Tutta colpa di Barbara Smith
Anche ora che abbiamo a disposizione i primi dati attraverso i quali capire cosa abbia portato all’elezione di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, in molti continuano a interpretare l’esito di questa elezione in un modo che non riesco a non reputare come erroneo e controproducente. Tra le tante, la linea interpretativa che non riesco proprio a digerire è quella sintetizzata in tutti quegli articoli dal titolo “Anche negli Stati Uniti il popolo si affida ai populisti”. Tutto potenzialmente vero, per carità, ma al netto del sistema elettorale americano, è interessante notare come gli ultimi due candidati repubblicani, McCain (nel 2008) e Romney (nel 2012), ossia due dei candidati meno carismatici che abbiano mai partecipato a una elezione presidenziale, abbiano comunque preso più voti di Trump. Questo dice molte cose sulla realtà nella quale viviamo. Soprattutto, conferma quanto ipotizzato da Michael Moore in un (ora) famosissimo articolo in cui già nel luglio del 2016 spiegò i motivi che avrebbero portato all’elezione di Trump. Uno di questi, “il nostro problema più grande non è Trump, è Hillary”, è senza ombra di dubbio il fattore dal quale partire per spiegare la salita di Trump al potere.
No entusiasmo, no party. Nel 2008 Obama fece breccia nel cuore di buona parte dell’elettorato americano. Il giorno delle elezioni fu votato da circa 70 milioni di americani. La sua campagna elettorale fu travolgente. Non si parlava che di lui. Il tema della campagna non era “non votate McCain”. Il tema della campagna era “votate per Obama: Yes we can”. Obama divenne sinonimo di cambiamento, di speranza. Divenne un leader per il quale mobilitarsi. Un leader che generava entusiasmo. I 70 milioni di americani che nel 2008 votarono per Obama si immedesimavano in lui. Il suo competitor di allora, McCain, non era neppure nei loro pensieri. Il loro voto per Obama non era un voto contro qualcuno, era un voto unicamente per Obama.
In queste presidenziali del 2016 i democratici avevano un altro tipo di candidato. La campagna della Clinton non si è basata su alcun tipo di “yes we can”. Un voto per la Clinton era sinonimo di un voto contro Trump, non il risultato dell’entusiasmo generato dalla sua candidatura. Questo, di fatto, è stato il principale fattore che ha portato alla vittoria di Trump. In un paese, gli Stati Uniti, dove il livello di polarizzazione tra elettori democratici ed elettori repubblicani è in continua e costante crescita, un candidato, Trump, ha fatto breccia nel cuore dei repubblicani, l’altro, la Clinton, è stata considerata dai democratici come il meno peggio. E tra il peggio e il meno peggio, si sa, vince sempre il peggio.
Colpa dei democratici che non hanno scelto Sanders? In molti hanno subito tuonato: “i democratici avevano Sanders, lui si che avrebbe vinto le elezioni”. Probabile. Anche perché, numeri alla mano, alla Clinton sarebbero bastate poche decine di migliaia di voti in più in alcuni stati, e oggi gli Stati Uniti avrebbero ancora un democratico alla Casa Bianca. Per spiegare la vittoria di Trump, tuttavia, farei ancora un piccolo passo indietro. Alle primarie democratiche si sono confrontati la moglie di un ex presidente e un senatore di 75 anni. Paradossale. Paradossale che in un mondo che cambia a una velocità impressionante, un mondo in cui Facebook diventa uno degli attori socio-economici più importanti su scala globale nel giro di pochi anni, nessun giovane politico, nessun “nuovo Obama di 40 anni” abbia scelto di candidarsi alle primarie democratiche per provare a diventare il 45° presidente degli Stati Uniti. Come mai? Nessun cittadino progressista americano aveva le capacità e il carisma per provare a conquistarsi la nomination democratica? No, certo che no. Di “nuovi Obama” ne è pieno il mondo, figuriamoci gli USA. Il problema è un altro. Il problema è che viviamo in una fase storica in cui in tanti, troppi, scelgono di far politica senza avere un fine elettorale. Scelgono di sensibilizzare i cittadini e chi ricopre cariche istituzionali dall’esterno, non di cambiare le leggi e il sistema politico dall’interno.
Tutta colpa di Barbara Smith. La questione è molto semplice: le persone che più stimate fanno politica all’interno di un partito politico con l’obiettivo di governare il vostro comune, la vostra regione oppure il paese? Se la risposta a questa domanda è no, non meravigliatevi se i politici che governano il vostro comune, la vostra regione o il nostro paese non siano in grado di sviluppare delle politiche pubbliche attraverso le quali garantire una qualità della vita pari a quella, ad esempio, dei cittadini danesi, svizzeri o australiani. Allo stesso tempo, non meravigliatevi del fatto che Trump sia diventato il 45° presidente degli Stati Uniti. La colpa non è della Clinton o degli elettori democratici che non le hanno preferito un candidato (forse) in grado di sconfiggere Trump, come Sanders. La colpa è di Barbara Smith, quella (ipotetica) cittadina americana che avrebbe avuto le competenze, la visione politica e il carisma per divenire la candidata del partito democratico nel 2016, ma che ha invece scelto, tanti anni fa, di far politica in un altro modo. Magari oggi è alla guida di una associazione che promuove politiche di genere, oppure fa parte di una lobby che lotta tutti i giorni per far approvare delle leggi attraverso le quali combattere efficacemente il global warming. Una modalità di fare politica legittima e soprattutto fondamentale, non mi fraintendete. Senza una società civile dinamica e ricca di soggetti che si mobilitano per promuovere diritti, politiche pubbliche di qualità ed eguaglianza sociale anche al di fuori dei partiti, gli equilibri democratici andrebbero in grandissima sofferenza. Il punto è un altro: cosa succede quando buona parte dei migliori talenti di una società fanno politica al di fuori dei partiti e senza l’obiettivo di governare le proprie comunità? Semplice, succede che i cittadini eleggeranno delle classi dirigenti mediocri. Succede che gli Stati Uniti eleggono Donald Trump come loro presidente. Non per suo merito, ma perché in tanti, troppi, stanno combattendo delle battaglie politiche nei luoghi e in modi funzionali, nella migliore delle ipotesi, al mantenimento dello status quo.
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