Partiti e politici
Tutti i nodi della politica tedesca tra effetto Schulz e semafori
La scelta di Martin Schulz come candidato alla Cancelleria del partito socialdemocratico tedesco (SPD) ha sicuramente trasmesso un messaggio rassicurante alle opinioni pubbliche di altri Paesi europei, meno avvezzi a seguire le dinamiche politiche di Berlino e dintorni. Una figura già conosciuta fuori dai confini tedeschi, che ha gestito con competenza la carica di Presidente del Parlamento Europeo e ha corso come candidato unico della sinistra europea alla Presidenza della Commissione. Nel caso dell’Italia, Schulz è noto al grande pubblico anche per piccoli episodi diventati cult sul web, come le sconcertanti parole che gli rivolse Silvio Berlusconi da Presidente del Consiglio proprio nell’aula dell’Europarlamento (dandogli del “kapò”) e il presunto imbarazzante ritardo di Matteo Renzi, che lo costrinse ad un giro di selfie con una delegazione di studenti italiani. Comprensibile quindi l’immediata popolarità di un concetto piuttosto scivoloso come l’effetto Schulz: dopo le leadership poco immaginifiche di Steinbrück, Steinmeier (oggi Presidente della Repubblica Federale) e Gabriel (Vice Cancelliere di Frau Merkel nella Grande Coalizione) la nomina di Schulz appare secondo molti come l’ingrediente che mancava alla SPD per resuscitare dal sonno degli ultimi anni e contendere la Cancelleria all’imbattibile Angela Merkel, alla ricerca del quarto mandato.
Resurrezione registrata finora nei sondaggi in vista delle elezioni del prossimo 24 settembre, che hanno attribuito al partito socialdemocratico un balzo di oltre dieci punti percentuali, da poco più del 20% al 30. A raffreddare gli entusiasmi della sinistra tedesca (e di molti osservatori esteri, già impegnati nella decrittazione dei possibili scenari politici da qui al 2018) sono stati però gli elettori di un piccolo Land minerario, la Saarland, dove si è votato domenica scorsa per il Parlamento regionale e per la presidenza. Il risultato ha spinto molti a rimarcare ironicamente la tenuta dell’immarcescibile “effetto Merkel”, contro cui continua a scontrarsi lo sfidante socialdemocratico: la CDU della Cancelliera ha toccato infatti il 40,7%, confinando la SPD al secondo posto col 29,6% e ponendola in diretta competizione con la sinistra estrema della Linke (12,9%). Immediate le dichiarazioni di entusiasmo da parte del partito della Cancelliera, che nel 2012 si era fermato al pur ragguardevole 35,7%: “Non avrei mai sognato un risultato simile” ha commentato la candidata Annegret Kramp-Karrenbauer. Più pragmatica la reazione di Angela Merkel, che ha lodato la performance, ma ha immediatamente invitato tutti a continuare il lavoro in vista delle consultazioni di settembre. Più tranchant i media conservatori come il Welt, che hanno ironizzato sul repentino esaurimento dell’effetto Schulz e messo in guardia i lettori dalle consuete distorsioni dei sondaggi (e dei sondaggisti).
Un’altra conseguenza della débâcle nella Saarland è l’infiammare di un dibattito tutto a sinistra sul format di coalizione più adatto a propiziare una vittoria di Schulz. Subito dopo la pubblicazione dei risultati il combattivo ex Ministro delle Finanze di Schröder, Oskar Lafontaine, oggi leader della Linke, ha invitato il candidato cancelliere a rivalutare la formula “rosso-rosso-verde”. La Linke viaggia intorno al 7% a livello nazionale, così come i Verdi, e un’alleanza con la SPD riprodurrebbe, in parte, la coalizione che sosteneva il Governo Schröder all’inizio degli anni Duemila. Le differenze su molti temi, a partire da quelli di politica economica, sembrano però al momento insormontabili e un avvicinamento potrebbe costare moltissimo a Schulz. È l’avvertimento che ha lanciato proprio Schröder, intervenendo a gamba tesa sull’argomento: finché la Linke sarà dominata dalla “famiglia Lafontaine” (il riferimento è alla pasionaria del partito Sarah Wagenknecht, moglie di Lafontaine), ha commentato l’ex Cancelliere, qualunque tentativo di dialogo sarebbe pericoloso e controproducente. Riprodurne gli slogan, ha concluso, spingerebbe gli elettori a votare l’originale. Oppure a rifugiarsi nuovamente tra le braccia della più moderata Frau Merkel.
Se le anime della sinistra cercano un compromesso tra visioni inconciliabili, l’area a destra della CDU sembra correre seriamente il rischio di un testacoda. Un altro degli argomenti che hanno dominato il dibattito pubblico tedesco questa settimana è infatti il destino di Frauke Petry, la leader del movimento Alternativa per la Germania (AfD) che, insieme a Marine LePen e al nostro Matteo Salvini, si è candidata a guidare la riscossa nazionalista contro l’Unione Europea e i partiti dell’establishment. Petry ha rilasciato un’intervista esclusiva al quotidiano Tagesspiegel in cui, facendo riferimento alle montanti polemiche interne sulla sua gestione del partito e alla concorrenza dell’ala più conservatrice dell’AfD, sembrava suggerire di essere disposta a fare un passo indietro, dal partito e dalla politica tout court. La situazione è delicatissima: tra tre settimane si terrà il congresso che deciderà il candidato alla Cancelleria e Petry, oltre ad aver annunciato di essere in attesa di un figlio, ha dovuto gestire le reazioni scomposte di quanti non hanno digerito la sua presa di posizione contro rappresentanti del partito accusati di antisemitismo e negazionismo. Ad essere in gioco non è solo la sua leadership (anche il predecessore, l’economista Bernd Lücke, se ne è andato sbattendo la porta), ma soprattutto la direzione che prenderà il partito nei prossimi mesi. Nel frattempo, l’AfD è crollata sotto l’8% a livello nazionale, ritornando ai livelli del 2015. Cioè prima che la crisi dei rifugiati e la paura per le minacce terroristiche la portassero a raggiungere la doppia cifra, con picchi di consenso nell’ex Germania Orientale.
In questo contesto fluido e imprevedibile, l’ipotesi di discutere eventuali coalizioni prima del voto sembra essere esclusa da tutti. Non conviene ad una CDU che ha un serbatoio di consenso consolidato, né ad una SPD che deve ancora mettere a punto le basi su cui costruire la candidatura di Schulz. Né tanto meno ai piccoli partiti, che rischiano di veder evaporare voti per via di indicazioni in un senso o nell’altro. In attesa di capire se Schulz si farà davvero tentare da una piattaforma con baricentro a sinistra e se l’AfD si sposterà definitivamente su posizioni più oltranziste sacrificando Frauke Petry, è interessante osservare le mosse della FDP. Il partito liberale è oggi guidato dallo smaliziato Christian Lindner e punta su una immagine cool per oltrepassare nuovamente la soglia del 5% e rientrare nel Bundestag dopo la bruciante esclusione del 2013. Una sconfitta dovuta alla cannibalizzazione della CDU (alleata di governo dal 2009) che sembrerebbe sconsigliare fortemente un nuovo avvicinamento ai cristiano-democratici, interessati allo stesso bacino di voti moderati e pro-business. A quel punto i liberali potrebbero tornare in gioco in una coalizione “semaforo” rosso-giallo-verde con SPD ed ecologisti, come sembra suggerire il settimanale Spiegel. Fantapolitica o ipotesi concreta? Settembre è ancora troppo lontano per dirlo.
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