Partiti e politici

Tra andare e restare. Lettera agli indecisi del PD

14 Maggio 2015

Sono una semplice segretaria di Circolo, di un circolo per di più piccolo e alla periferia dell’impero. Ma sento il bisogno di scrivere a voi, che ora non sapete se andare o restare; che vi arrabbiate quando la Boschi dice che tanto Civati non lo seguirà nessuno; che siete sinceramente stufi di essere percepiti come una palla al piede.

Ecco, non lo siete. E non solo perché il nostro Circolo, come tanti altri, sarebbe più povero se ve ne andaste.

Quando, dopo le primarie del 2012, ho scelto di fare la tessera del Partito Democratico, l’ho fatto perché sentivo che era il momento di fare qualcosa: non mi piaceva il partito di allora, non mi ritrovavo nella retorica di Bersani, a suo modo aggressiva ed escludente (certo, non parlava di gufi, e ci ritorno: ma essere minoranza allora non era affatto facile, come sanno gli amici che ci sono passati). Credevo che l’impostazione fosse sbagliata, su tantissimi piani. E proprio per questo ho sentito il dovere di fare qualcosa.

Non tutti reagiscono allo stesso modo, ogni scelta è legittima, e io avevo dalla mia la freschezza di chi non si era sporcato le mani per più di pochi mesi, e da lontano. Dunque immagino che lo stato di logoramento che avete raggiunto per pensare di andarvene non sia paragonabile a quello che sentivo allora. Ciononostante sono qui, e provo a dirvi la mia.

Il fatto che ora vi troviate in questa situazione di incertezza e di delusione rappresenta, io credo, il primo vero fallimento di Renzi – che ha tirato troppo la corda, pur sapendo che stava per rompersi. Intendiamoci: ognuno ha le sue responsabilità, come è normale che sia, e la minoranza non ne è immune. Ma sono convinta che sia meglio prenderne atto, con serenità. E restare, a combattere insieme.

La rottamazione “sbagliata”. Quando Renzi è diventato Segretario del PD in molti sapevano che la rottamazione non sarebbe più stata il primo punto all’ordine del giorno. L’obiettivo era piuttosto una finta pax renziana, che provava a mettere d’accordo tutti tagliando fuori solo chi proprio non ci stava. E qui, credo, è stato commesso un primo errore. Perché chi voleva rottamare non voleva la testa di qualcuno, ma di qualcosa: del legame perverso tra politica ed economia (dall'”abbiamo una banca” al caso, recentemente emerso, dell’Unità), di un partito in cui non sono chiari i criteri di selezione della classe dirigente, di quella assenza di discussione nel merito che aveva fatto soffrire molti e che toglieva ossigeno anche al consenso nell’opinione pubblica. Erano, questi, i punti che Renzi condivideva con Civati: e che, sono sicura, sarebbero stati ben digeribili anche per tutte le altre parti “sane” del partito, passata la fase dello scontro congressuale. La scelta di Renzi è stata diversa: l’esito – nonostante l’indiscusso successo elettorale – è stato un magma indistinto, acque confuse e difficoltà di trovare punti di appoggio per la discussione. A questo, con il tempo, si è aggiunto un altro errore: l’aver trascurato il partito, le sue modalità di crescita. Se fossi in lui, passata la fase di braccio di ferro sulle riforme, mi ci metterei di santa ragione: la priorità, nel partito, è trovare un modo per favorire un clima di discussione seria, per ridimensionare l’importanza che, da ormai troppo tempo (e da ben prima del 2013), gli slogan hanno occupato nella dialettica interna.

La retorica dei gufi e la strategia perdente. Alla “rottamazione sbagliata” ha corrisposto, da parte di Civati, una strategia che io reputo perdente. La ormai stantìa retorica dei gufi, che ha consentito a Renzi di forzare la mano a un parlamento che non gli corrisponde tramite uno storytelling congeniale al paese, avrebbe dovuto avere come obiettivo unico coloro che davvero erano ostili ad ogni tipo di cambiamento: a livello simbolico, e so che molti non concorderanno con me, dico che avrebbe dovuto prendere di mira il compagno Fassina,  e non Civati. O meglio: non il Civati di impostazione liberale, quello di qualche anno fa, che su Fassina avrebbe avuto probabilmente da ridire quanto Renzi. Ponendosi, come Fassina e Bersani, come quello che dice molti no un po’ troppo pregiudiziali, senza nemmeno accettare di entrare in Segreteria e sporcarsi le mani con il potere reale, Civati ha condannato se stesso all’irrilevanza; e preferendo scrivere post con titoli ironici, che francamente sapevano un po’ di okkupazioni scolastiche e stimolavano un ulteriore innalzamento dei toni, ha cancellato, agli occhi di molti, anni di lavoro serio sul merito e sui contenuti. Non è stato raro, purtroppo, assistere a discussioni surreali nei social network in cui tutti i renziani venivano accusati da militanti particolarmente attivi di essere tifosi che ripetono slogan a pappagallo, mentre loro stessi ripetevano in continuazione “uomo solo al comando”, “svolta autoritaria” e altri espressioni simili. Non era un bello spettacolo, per nessuno; e ho avuto spesso la sensazione che la critica politica – ad es. alle larghe intese – si spostasse impercettibilmente in molti civatiani su un piano di giudizio morale (se sostieni le larghe intese o sei stupido o sei in malafede) che spesso aveva come unico risultato quello di provocare reazioni di difesa fatalmente aggressive. È poi ovvio che le responsabilità maggiori siano in chi sta più in alto, il Segretario del partito: ma sarebbe bello che dalle tristi vicende di questi mesi imparassimo tutti qualcosa.

Il decennio vuoto. Come scrive qualcuno, Renzi probabilmente sarà solo un bruco:

Forse è allora proprio questo il filo del destino che le Moire hanno intessuto per Matteo Renzi: essere l’agente di cambiamento in grado di spostare il quadro complessivo della sinistra italiana, quello che porta gli occhiali del PD a rifare le lenti per mettere a fuoco la visione che finora è mancata. E portare a sinistra idee che per scelta o per accidente da quel perimetro sono state tenute fuori, mentre nel resto del mondo vi hanno già trovato comodamente casa.

Destino tragico, però, come appunto quello del bruco: stadio preliminare da cui potrà poi nascere la farfalla compiuta del liberale di sinistra al governo, cioè colui che fatalmente ne decreterà la morte – o, per usare un termine più appropriato, la rottamazione.

Mentre non sono così sicura del fatto che in Europa la sinistra se la passi così bene, e non solo a livello elettorale, credo che il problema più grande per il PD sia, oggi, quello di lavorare pazientemente alla costruzione della propria identità. Sempre più spesso incontro militanti di vecchia data che si sentono semplicemente spaesati: i punti di riferimento del passato vengono meno, le certezze sul futuro sono poche, ci si muove a vista. Parlando con molte persone, mi sono accorta di come non ci sia nemmeno accordo su cosa significhi “vocazione maggioritaria”, e se sia una cosa buona: un altro feticcio accettato a priori, senza che la discussione sia stata sufficientemente approfondita, pensata, accompagnata.

Questo spaesamento non può essere lasciato solo. E io credo che serva davvero il lavoro di tutti, per fare in modo che questo spazio vuoto, come scriveva qualche giorno fa un amico, venga riempito. E venga riempito al di là delle correnti, da tutte le persone che abbiano voglia, davvero, di costruire il futuro.

Insomma, restate. Abbiamo bisogno di voi.

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