Partiti e politici
Tasse, scuola, welfare: cose noiose e indispensabili per rifondare la sinistra
La fase storico-politica che stiamo vivendo rischia di far scomparire la sinistra italiana (intesa in senso lato) dai luoghi di rappresentanza istituzionali. Sarebbe un peccato, non per “lesa maestà” ma perché c’è bisogno di sinistra, e c’è una domanda di sinistra. Il problema è: quale sinistra?
Questa fase, che non è iniziata il 4 marzo ma che con le elezioni politiche ha trovato il suo compimento, ha dei risvolti deprimenti per chi ha dedicato passione ed energia a diversi progetti politici che sono stati indistintamente bocciati nelle urne. Noi, appassionati e testardi, però possiamo anche coglierne gli aspetti stimolanti e provare a rifondare e ridefinire. Qualcosa si sta muovendo, soprattutto all’interno del Partito Democratico con le iniziative di Pierfrancesco Majorino e Peppe Provenzano, ma credo che il dibattito si debba allargare senza tattiche e senza riserve. Penso che il problema sia profondo e non di immediata soluzione, e che il distacco tra sinistra ed elettorato sia pre-esistente all’attuale dirigenza del Partito Democratico. Del resto, i vecchi dirigenti non hanno esattamente fatto il pieno di voti, anzi.
Occorre ripensare e ridefinire un’identità, per poi potersi muovere con autorevolezza in uno spazio politico completamente diverso rispetto a quello del secolo scorso, durante il quale avevamo imparato a declinare le nostre categorie politiche di riferimento. Per farlo però ci vuole coraggio, il coraggio di aprirsi, di contaminarsi e cedere pezzi di potere. Purtroppo in queste settimane ho visto anche molti, troppi, esercizi di stile, sforzi di mero ri-posizionamento, che hanno un orizzonte limitatissimo e possono servire a riprendersi il proprio partito (qualsiasi esso sia) ma non a tornare al governo del paese.
Serve quindi un’identità nuova e chiara per poter offrire una visione che risponda alle fragilità e alle paure. Che non vuol dire negare i passi avanti fatti, ma riconoscere che non tutti beneficiano in modo uguale dei miglioramenti creati dall’azione politica. Che non vuol dire adottare temi e linguaggi di altri, ma trovare risposte nuove e comunicarle con parole nostre.
E poi bisognerà essere coerenti con questa identità perché l’elettorato ci dia di nuovo fiducia: non si può parlare di lotta all’evasione e poi alzare la soglia del contante, non si può parlare di lotta alle disuguaglianze e poi togliere l’IMU sulla casa.
E poi si dovrà anche essere un po’ scomodi. I ceti medio alti, i beneficiati dalla globalizzazione, non dovranno votarci perché facciamo i loro interessi ma perché occupandoci degli ultimi (e dei penultimi e dei terzultimi – cit.) creiamo una società migliore dove vivere. Dovremo abituarci a rivendicare come si sono spesi bene i soldi delle tasse, non vantarci di averle ridotte.
Questo non vuol dire non preoccuparsi della produzione della ricchezza, ma avere chiaro in mente che si vuole ottenere crescita economica per poi fare redistribuzione e pre-distribuzione, per migliorare le condizioni di partenza di chi nasce svantaggiato. Dovrà essere per forza una crescita da nuovo millennio: sostenibile, che rispetti vincoli di impatto ambientale e crei impatto sociale oltre che PIL.
Parte essenziale della costruzione di questa nuova identità è ridefinire un paradigma socio-economico, che crei ideali ma non sia fuori dal tempo. Alcuni l’hanno definito il superamento della dicotomia tra sinistra riformista e sinistra radicale: l’espressione non mi esalta nella scelta degli aggettivi ma credo che sintetizzi efficacemente il problema.
Elementi essenziali dovranno essere un nuovo welfare, che non sia assistenzialismo, che combatta la povertà cercando di aiutare le persone a divenire autonome. Il lavoro dovrà arrivare da investimenti in innovazione, sia tecnologica che di governance. Investimenti in innovazione tecnologica possono portare il paese a miglioramenti nella produttività di cui abbiamo bisogno e possono incentivare le imprese a fare re-shoring e riportare in Italia le produzioni ad alto valore aggiunto. L’innovazione di governance, quella che coinvolge oltre ai portatori di capitale anche i portatori di interessi, permetterà di mantenere la crescita e l’attività economica su binari sostenibili. Si dovrà investire nella scuola pubblica, perché diventi di nuovo un meccanismo di mobilità sociale e poi consequenzialmente imporsi di rispettare le competenze, sempre e in ogni ambito. Altre montagne da scalare devono essere il mezzogiorno, la coesione sociale e l’integrazione, la burocrazia, la corruzione diffusa e lo sgretolamento di quelle sacche di rendita che sopravvivono indisturbate da decenni. Perché se non è assolutamente vero che l’Italia sia ormai una pianura dove regna incontrastato il liberalismo più spinto, forse però è vero che il mercato e la concorrenza sono stati introdotti a macchia di leopardo e spesso imposti solo alle fasce più deboli della popolazione.
Io penso che adeguato interprete di questa identità politica possa ancora essere un partito, sebbene anche qui ci sia da lavorare sulla sua forma. Abbandonate le strutture rigide novecentesche e rifiutate quelle fluide in balia dell’algoritmo bisognerà trovare una formulazione nuova che favorisca il bilanciamento tra democrazia interna e rappresentanza da un lato e agilità nelle decisioni dall’altro. Un partito che sappia ascoltare per capire ma al tempo stesso sia in grado di creare consenso e gestire in modo costruttivo il dissenso. In questo ruolo dovrà necessariamente interloquire nuovamente con i sindacati ma vista la frammentazione del lavoro anche con associazioni, cooperative e imprese sociali che ormai sono i corpi intermedi del nostro tempo, e che non hanno perso il contatto con il paese.
Mi piacerebbe che alle prossime elezioni ci fosse sulla scheda un partito, non necessariamente il Partito Democratico, che abbia questa identità e che offra un’idea di futuro e una visione di paese con cui mi possa sentire di nuovo a mio agio così da poterlo votare in tutta serenità.
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