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Labate: “I politici italiani come i protagonisti di house of cards”

13 Settembre 2022

Tommaso Labate, è considerato una delle voci più fresche e autorevoli del panorama giornalistico italiano.
Giornalista poliedrico inizia la sua carriera a Il Riformista nel 2004 sotto la direzione di Antonio Polito scrivendo di politica, costume e società. Passa poi al Corriere Della Sera dove  oggi è una firma di riferimento nel panorama politico italiano. Conduttore radiofonico conduce  per Rai Radio 2 il programma “Non è un Paese per giovani”. Volto famoso per la sua partecipazione a molti talk show televisivi e conduttore su La7 dei programmi InOnda e Fuori Onda.
Due grandi passioni, la sua squadra del cuore l’Inter a cui ha dedicato perfino un libro, e il suo paese natale Marina di Gioiosa Ionica.
Nasce in Calabria vive a Roma dove ha passato il maggior tempo della sua vita, ma il cuore resta nel Paese natale da lui definito home mentre Roma è house.
Ci scambiamo qualche telefonata ed è semplice organizzare l’intervista, traspare il suo amore per la scrittura e lo dichiara apertamente, si concede senza limiti di alcun tipo e non manca vista la vicinanza dalle elezioni, un suo parere sul tema.

Quando hai deciso di diventare giornalista?

Da bambino sognavo di fare tre cose: il giornalista, lavorare sui treni e, abitando al mare, il pescatore. Non ero un bambino e un adolescente che leggeva tanti libri, da ragazzo però, leggevo molti giornali, che grazie a mio padre giravano per casa. A cominciare da Repubblica, anche se poi sono felicemente finito a lavorare al Corriere della Sera. Ancora oggi leggere i giornali al mattino è la mia attività preferita. Da bambino mi divertivo a scrivere articoli sulle partite dei mondiali di calcio, in particolare quelli della nostra nazionale italiana ai mondiali del ’90 Li scrivevo martellando sui tasti di una vecchia macchina da scrivere Olivetti regalatami da mio nonno, se non ricordo male per la promozione alla quarta elementare. Quella macchina mi ha tenuto compagnia anche alle scuole medie, dove scrivevo per il giornalino della scuola e mi ha accompagnato fino all’esame di giornalista professionista, circa 18 anni dopo. Il mio primissimo articolo su carta fu pubblicato quando ero in prima media e si riferiva ad una lite avvenuta alla fine della partita Bologna-Juventus, tra Fabio Poli e Totò Schillaci. Da ragazzo ho sempre più scritto che letto.

ultimo libro di Tommaso Labate

Raccontaci della tua carriera. Hai iniziato a Il Riformista dove sei rimasto fino alla sua prima chiusura. Cosa ha significato per te quell’esperienza?

Devo tutto a quella esperienza, senza quel giornale e soprattutto senza Antonio Polito non avrei fatto nulla in questo ambito. Appena laureato nel 2004 inizio con uno stage non retribuito per i primi sei mesi. Il primo giorno entro in redazione, in compagnia di giornalisti che poi nel corso degli anni hanno fatto una bella carriera come Fabrizio d’Esposito al Fatto Quotidiano, Stefano Cappellini, oggi a Repubblica, Carlo Puca, Luca Mastrantonio al Corriere della Sera, Francesco Cundari autore televisivo. Mi ero dato l’obbiettivo di riuscire a scrivere e pubblicare un articolo entro un mese, invece Polito mi commissionò subito un editorialino su una delle prime bocciature subite dalla legge Bossi-Fini sull’immigrazione, da parte della Corte Costituzionale. Il classico culo del principiante, pensai. Il secondo giorno feci un’intervista a Lamberto Dini, mi sentivo già in rampa di lancio, l’exploit arrivò il terzo giorno quando mi fecero intervistare Marco Pannella, mi sentivo il ragazzo prodigio: solo dopo pochi giorni il Direttore mi manda ad intervistare il Leader dei Radicali, anche se scoprii poco dopo che l’intervista a Pannella, all’interno dei giornali veniva vissuta come una specie di febbre a 38, una cosa da cui tenersi a distanza (sorride, ndr). Pannella era considerato un rompiscatole e un’intervista con lui era considerata una guerra. Io ne conservo bellissimi ricordi, anche perché i Radicali sono stati la realtà che ho seguito con continuità nei primi mesi della mia carriera. In quell’intervista mi sentivo e pensavo di essere un genio, mentre il resto della redazione aveva trovato qualcuno a cui appioppare l’ingrato compito. La storia a volte fa dei giri incredibili, pensa che moltissimi anni dopo, insieme a David Parenzo, abbiamo ospitato Marco Pannella nella trasmissione televisiva Fuori Onda, fu l’ultima sua apparizione in TV. Dalla mia prima intervista alla sua ultima comparsata in TV, è come se si fosse chiuso un cerchio.

Che scuola è stata per te e per tutti voi? È stato un bel trampolino di lancio per molti. Qual era la ricetta speciale di quella redazione?

Noi tutti al Riformista eravamo considerati un po’ figli di un Dio minore rispetto ad altri giornali di quella dimensione. Eravamo agguerriti, il nostro Direttore Polito prendeva il meglio da ciascuno di noi, che molto stesso ci azzuffavamo per un pezzo o per stare su un servizio, quindi era una redazione “accesa”, dove si generava una sana competizione interna, il giornale era strapieno di notizie. Pensandoci oggi è un po’ come rivedere quei vecchi film sulle squadre inglesi, tipo quel Maledetto United, Polito era una specie di Brian Clough, nello spogliatoio volavano i coltelli. La cosa bella è che i rapporti umani con molti si sono consolidati, terminata quell’avventura. Il giornale da questa competizione interna ne traeva un gran guadagno, uscita dopo uscita.

E il rapporto con Antonio Polito?

Sono stato molto fortunato ad avere un direttore come Antonio Polito, anche senza dirtelo chiaramente aveva un modo di porsi che riusciva a motivarti e a farti dare il massimo. Ti racconto due fatti. Alla fine dello stage venni assunto con un contratto da praticante a tempo indeterminato, oggi una cosa impensabile. Seguivo i temi legati alla politica con maggior attenzione allo schieramento di centro sinistra, una mattina leggo il mio pezzo sul Riformista, che riportava le stesse notizie scritte da Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera, per me una specie di mito. Pieno di orgoglio mi reco in redazione per la consueta riunione, vantandomi che un semplice stagista scrivesse le stesse notizie riportate da un grande quotidiano e da un’autorevole firma. Polito mi rispose: “allora ti devo cacciare”, “perché?” risposi e Polito argomentò: “Se noi riportiamo le stesse notizie del grande quotidiano, allora la gente si compera il Corriere, per quale motivo dovrebbe leggere il nostro?”. Bastò questa affermazione per cambiare completamente la mia prospettiva. In un congresso di partito, e ho avuto l’opportunità di seguirne molti, fino ad arrivare ad un’assemblea per il voto di fiducia, e nei corridoi del transatlantico, se vedevo la massa che si recava da una parte io andavo nella direzione opposta. Da quel giorno ho capito che dovevo differenziarmi dai colleghi, dovevo cercare un’altra chiave di lettura, un retroscena diverso, preferivo quindi prendere “il buco” piuttosto di proporre lo stesso pezzo di altri. La lezione mi è servita in futuro, anche quando sono arrivato al Corriere. Il secondo aneddoto, qualche anno dopo, fu la richiesta della tessera parlamentare, in poche parole il Riformista avrebbe dovuto chiedere per mio conto, l’accredito permanente alla Camera che certificava l’ingresso nell’Associazione Stampa Parlamentare, ciò comportava una serie di adempimenti e di regole, come il numero delle tessere rilasciate alla redazione, calcolato in base all’effettivo organico delle persone assunte ecc… ma soprattutto l’iscrizione comportava un maggior costo che la testata, attenta ai costi, non voleva assumersi. Ci fu quindi una contesa tra me e il direttore che non intendeva accollarsi un maggior onere, considerato che il mio lavoro veniva ugualmente svolto. Polito ad un certo punto mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: “Scusa Tommaso, levami una curiosità, ma tu che firmi sempre in prima pagina, che te ne fotte di essere cronista parlamentare?” Pensavo di rispondere che quel 15% di maggior compenso mi avrebbe fatto comodo, mica potevo andare al supermercato con la copia del Riformista e pagarci la spesa? Trovai però talmente geniale e sublime la sua affermazione che non lo feci. Poi tempo dopo la cosa si risolse e mi diedero il tanto agognato accredito.

Ci racconti come è andata con Napolitano?

Il Riformista aveva chiuso, avevo fatto una sostituzione estiva per il Corriere che si rivelò molto fortunata, nel 2012 credo. Il Corriere restò molto contento della collaborazione, le assunzioni però erano complicate, mi dissero che in ogni caso avrebbero trovato il modo, in un tempo ragionevole, per riprendere la collaborazione. A quel tempo Luca Telese fondò un piccolo giornale che si chiamava “Pubblico” e mi propose un contratto di assunzione, indeciso chiesi al Corriere che fare, fui rassicurato su una futura collaborazione, decisi così di accettare la proposta di Telese, cosciente che sarebbe terminata con il mio ritorno al Corriere. In quella precisa fase due o tre persone di provata fede migliorista, come si sarebbe detto una volta, si trattava di una corrente del PCI di cui faceva parte Napolitano, si lasciarono sfuggire con me che stava per iniziare una raccolta di firme per chiedere la rielezione del Presidente della Repubblica. Intercettai questo documento e mi resi conto, dalle firme apposte, che la cosa non poteva venire effettuata in barba alla volontà di Napolitano, l’onorabilità di alcune persone firmatarie mi rassicurò sul fatto che ci doveva essere stato per forza un passaggio, anche laterale, con il Presidente. Scrissi quindi che era in corso un movimento volto al secondo mandato, che all’epoca era come scrivere che gli asini volavano, insomma una cosa mai accaduta nella storia della nostra Repubblica. Il giorno dopo il Presidente Napolitano invia un documento (ancora visibile sul sito del Quirinale) che conteneva una ferma, ma cortese lettera di smentita al quotidiano, riprendendo il pezzo e dichiarando che non sarebbe stata sua intenzione ecc… Il pezzo poi assunse un’incredibile celebrità, quando inaspettatamente, mesi dopo Napolitano fu il primo Presidente della Repubblica ad assumere il doppio mandato. Si verificò quindi quello che io avevo previsto e scritto con chiarezza, ma non nel passaggio di un pezzo, si trattava di un articolo addirittura titolato sul tema del secondo mandato. Beppe Grillo poi sventolò lo stesso pezzo in una affollatissima conferenza stampa a Roma, lasciando intendere che in realtà esisteva un piano preordinato da parte di Napolitano per rimanere ancora in sella alla Presidenza della Repubblica. Non era tecnicamente così, ma neppure molto distante, per quanto riguarda l’area di riferimento culturale che faceva storicamente capo a Napolitano.

Il ricordo più vivo e che ti ha segnato maggiormente in questi anni di attività?

Te ne cito uno che però non ha nulla a che fare con la carta stampata. Il giorno che insieme a David Parenzo, su suggerimento di Enrico Mentana, durante la trasmissione “In Onda” ci fu il tragico evento del terremoto ad Amatrice e andammo a fare subito la diretta sul posto. Un altro ricordo è legato ad un’altra calamità naturale, mi riferisco al terremoto a L’Aquila, dove fui mandato da Antonio Polito. Resto ancora molto affezionato al pezzo dei funerali di Stato che si svolsero alla Caserma di Coppito. Questo dimostra che, nonostante ti occupi di costume e di politica, quando segui certi fatti drammatici, vieni coinvolto in una misura nemmeno paragonabile a qualunque retroscena. Due pezzi legati dallo stesso tipo di evento, soprattutto il racconto dei funerali di Stato, dove la gente comune si mescolava alle alte cariche dello Stato, come non ci fossero scorte, divisioni di alcun tipo, ho memoria di persone comuni che raggiungevano fisicamente Gianni Letta, allora sotto segretario della Presidenza del Consiglio, come se non ci fosse alcun tipo di filtro. È sicuramente il racconto che ricordo con più trasporto.

Quali sono stati i tuoi più grandi maestri?

Ci sono decine e decine di colleghi da cui ho imparato. Alcuni di loro neanche lo sanno. Le basi del lavoro le devo a Polito per la carta stampata e a Mentana per la tv, anche se non è il mio pane quotidiano.

Un articolo che avresti voluto scrivere e invece lo ha scritto qualcun altro?

Certo che mi è capitato. Ti racconto una storia. Mia madre era incinta ma ancora non lo sapeva, quando i miei genitori, andarono a vedere a Reggio Calabria il concerto di Dalla e De Gregori credo nel 1979, io sarei nato qualche tempo dopo. Sono sempre stato legato a quella turnè, di cui conosco il disco a memoria. Il pezzo che avrei voluto scrivere fu quello dell’annuncio della reunion, 30 anni dopo, dei due cantautori, scritto da Malcom Pagani sul Fatto Quotidiano. Quando lessi il pezzo, uscito un anno prima della morte di Lucio Dalla, dissi: “porca miseria, quel pezzo avrei voluto scriverlo io, avrei voluto avere io la notizia”, poi probabilmente non sarei stato in grado di scriverla bene come la scrisse Pagani sul Fatto.

Non solo giornalista, ma anche conduttore TV e radiofonico. Cosa ti diverte di più?

Non esiste nulla che mi diverta quanto scrivere e fare il giornalista di carta stampata, però devo dire che la radio è stata una grandissima sorpresa, allarga tantissimo il tuo orizzonte. Se tu sei un giornalista del Corriere della Sera e ti occupi di cose serie o seriose e hai la possibilità (e qui ringrazio tantissimo la Rai) di poter condurre un programma di approfondimento che sia pop e allo stesso tempo ricevere centinaia di messaggi degli ascoltatori, tra cui moltissimi non lettori del giornale dove scrivi, porti al tuo lavoro principale un valore aggiunto, anche senza rendertene conto. Mi fa molto piacere e capita spesso, partecipando a trasmissioni televisive, incontrando persone in occasione di vari eventi, di sentirmi dire che sono ascoltatori anche della trasmissione radiofonica. Questa è la potenza della radio, di cui forse nessuno se ne rende pienamente conto.

Che rapporto hai col web? Sei un giornalista quarantenne già molto affermato, ma che ha fondato la sua carriera su carta e tv. Che futuro vedi per l’informazione su internet?

Se tu hai una notizia forte, hai uno scoop, tipo “Obama a cena con Trump”, che tu lo scriva su carta o sul web, è sempre la stessa notizia. L’unica minaccia del web è che l’inserzionista oggi non paga le stesse cifre che pagava ieri su carta. Non vedo una grande conflittualità con il web, tra l’altro il Corriere, come molti altri giornali, stanno sperimentando nuove forme di integrazione che a mio avviso funzionano. Lanciare la notizia sul web nel pomeriggio e approfondirla il giorno dopo. Non sono ostile al web, anzi… Con il Corriere ho portato avanti questa iniziativa che si chiamava Corriere Live, dove abbiamo ospitato i principali esponenti politici nel corso degli ultimi anni, esiste sicuramente un modo per convivere e sopravvivere insieme. Il vero problema rimane il modo di pagare i giornalisti. Grazie al web vedo un’attenzione alla politica che secondo me non c’è mai stata. Quando sono arrivato a Roma nel 1997 per fare l’Università, per molti anni la mattina al bar i discorsi si limitavano a estate e inverno, Roma o Lazio, il campionato della Roma o il campionato della Lazio, d’estate il calcio mercato della Roma e quello della Lazio, oggi invece si parla di Conte e di Salvini, di Di Maio e della Meloni.

Come procede il mandato di Gualtieri a Roma? Sta cambiando qualcosa nella gestione della città?

Gualtieri può essere in prospettiva un ottimo sindaco, il problema è che non bisognerebbe cadere nella tentazione, in cui lui stesso è caduto, di annunciare cambiamenti rapidi e radicali che poi la collettività non ha modo di vedere e di toccare con mano. Spero nella rinascita di questa città anche se non la sento come la mia città, è il luogo dove vivo, in cui pago le tasse, sono residente ed è la città in cui voto, però non posso non notare, rispetto al periodo in cui sono arrivato, che Roma governata da Rutelli prima, e da Veltroni dopo, era una città per tutti i gusti, piena di cultura, di divertimento, di musica, c’era tutto, Roma era il grande bazar delle opportunità. Certo mancava l’industria, mancava il lavoro, riservato principalmente alle attività di servizio pubblico, ma tu studente, giovane universitario o giovane lavoratore a Roma ti divertivi, a Roma mangiavi bene, ora molto meno, è come se questa città si fosse appassita, è una città che ti delude in continuazione, sembra il classico posto in cui ti infili da qualsiasi esercente e vieni trattato in due modi diversi, a seconda che tu lo conosca o meno. Vedo un appassimento generale che non si riduce al solo problema della spazzatura, è qualcosa di molto più complesso, come se all’interno di questa città, ciascuno si fosse rassegnato ad un destino non bello, una volta non era così. Non dimentichiamo però che Roma nel corso della sua storia è appassita e rifiorita centinaia di volte.

Perchè sembra così difficile governare Roma e così semplice governare Milano?

Le due città hanno dimensioni completamente diverse, due grandezze incommensurabili: Roma ha 18 municipi, credo che il territorio del solo 15esimo municipio equivalga a quello della città di Milano. Se a Milano ti trovi nel quartiere Giambellino, lato Lorenteggio, ad un certo punto camminando sul marciapiede noti dall’altra parte il cartello con la scritta Corsico, in pratica all’interno della stessa città inizia un nuovo comune. A Roma devi camminare decine di chilometri prima di vedere la scritta Roma attraversata da una barra rossa, che certifica la fine del territorio comunale. È una città che non finisce mai. Diventare presidente di un municipio a Roma è di fatto come essere Sindaco di Firenze o Palermo. Se ci si basa solo sulla differenza del numero degli abitanti si rischia di non vedere la vera differenza di dimensioni tra le due città, Roma ha un territorio molto, ma molto più vasto.

 

Entriamo nel vivo dell’attualità. Citando il titolo di un tuo libro, cosa succederà ai “rassegnati” dopo il 25 settembre?

Prima di tutto bisognerà capire per chi voteranno. Penso e spero che rispetto al passato questa volta i rassegnati voteranno. Tutto il popolo dei quarantenni che molto spesso si è rifugiato nell’astensione o nel voto al Movimento5Stelle, a mio avviso sta riscoprendo la politica, con la voglia di partecipare. Penso che ci sarà astensione, ma in una misura molto minore rispetto alle previsioni catastrofiche a cui stiamo assistendo. Bisognerà capire poi per chi voteranno. Ci potrà essere la tornata, in cui le istanze che noi abbiamo considerato mal rappresentate nel corso degli ultimi anni come ambientalismo e diritti sul lavoro, recupereranno terreno nella scheda elettorale.

In un tuo tweet di inizio agosto hai affermato che “Molti protagonisti della scena elettorale, a oggi, si muovono come volpi che vogliono fregare il prossimo. E trascurano quella massima Craxiana secondo cui tutte le volpi, prima o poi, finiscono in pellicceria“. È un augurio?

Penso che il taglio dei parlamentari sia stata una scelta scellerata e la stessa cosa vale per il finanziamento pubblico dei partiti, sono convinto che sia gli insegnanti sia i politici vadano strapagati, solo con un buon compenso i più bravi, quelli che riterranno di avere maggiori attitudini, concorreranno a svolgere quel lavoro. Sono per una attività politica che deve essere ben pagata e per un maggior numero di parlamentari, la riduzione è stata una scelta completamente sbagliata ed è comico rilevare che coloro che hanno votato per la riduzione si sono trovati poi senza posto garantito.

Meglio astenersi o tapparsi il naso e andare a votare?

Non contemplo una contesa elettorale in cui il cittadino si esima dal diritto-dovere di andare a votare. Tra le scelte rispettabili c’è anche quella di non sentirsi rappresentati e quindi di votare scheda bianca, non condivido la scelta di non andare al voto. A Roma, in un referendum consultivo che riguardava i poteri dell’Atac, se non ricordo male ci fu una partecipazione addirittura inferiore al 10%, io però ci andai. Ricordiamo che votare è un diritto ma anche un dovere.

Sta uscendo un tuo libro. Un altro. Dopo la tua Inter, la politica. Dicci la verità: cosa ti diverte di più?

Quando pubblicherai l’intervista il libro “Ultima fermata” sarà uscito da pochi giorni. È il mio primo libro sulla politica, il primo era un saggio sui quarantenni, poi ho scritto un libro sull’Inter, e per quanto mi fossi ripromesso di non fare un libro sulla politica, alla fine l’ho scritto. È un super reportage dal dietro le quinte sulle due cose che cambieranno (forse per non cambiarlo) il sistema politico italiano. Si tratta degli ultimi sette mesi nei quali si è svolta l’elezione del Presidente della Repubblica e la crisi di governo sfociata con le dimissioni di Draghi. Li si raccontano personaggi che si muovono come se si trovassero all’interno di House of Cards. Per capire la politica in questo momento storico è necessario capire i personaggi, proprio come in una serie televisiva. Simpatie, antipatie, gelosie individuali, determinano la gestione della cosa pubblica molto di più di quanto non la determinassero in passato. Andreotti

e De Mita si detestavano, lo stesso De Mita detestava Cossiga, ma De Mita fu l’artefice della presidenza della Repubblica di Cossiga, oggi non potrebbe mai accadere una cosa del genere. Salvini, se potesse, non farebbe nulla per promuovere la carriera di Giorgia Meloni e viceversa. Questo è un passaggio cruciale. Se una volta era necessario capire i partiti, oggi bisogna capire i politici in quanto persone, quindi il racconto politico si fa triste dal punto di vista del cittadino, ma molto avvincente dal punto di vista dello scrittore e del lettore. Penso che il libro, per chi lo leggerà, divertirà tantissimo perché pieno di piccole grandi cose sorprendenti sui personaggi descritti.

Baratteresti uno scudetto dell’Inter con un esito delle elezioni che ti soddisfi?

Quando sento la frase di un ipotetico baratto a sfavore di uno scudetto dell’Inter, rispondo subito No! senza sapere neppure cosa c’è dall’altra parte. Mi ricordo una vecchia frase pronunciata ai tempi dall’ingegnere Ferlaino, allora presidente del Napoli. Negli anni successivi allo scudetto vinto incredibilmente dal Milan ai danni del Napoli, Ferlaino fu accusato di esserselo venduto e lui in un’intervista rispose: “io non avrei mai venduto uno scudetto, semmai lo avrei comprato”.

 

 

 

 

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