Partiti e politici
Smontiamo alcune ragioni del No al Referendum Costituzionale
Manca sempre meno al fatidico 4 dicembre, data in cui i cittadini italiani saranno chiamati ad esprimere il loro voto circa la proposta di riforma Costituzionale, fortemente voluta dal Governo e approvata dal Parlamento il 12 aprile scorso.
Com’è normale che sia, in quest’ultimo periodo lo scontro tra le due fazioni si sta accendendo a vista d’occhio: ogni giorno sentiamo parlare di ragioni per il Si, per il No, di combinato disposto con la legge elettorale, l'”Italicum”, di possibile deriva autoritaria, ecc.
Spesso le ragioni delle due fazioni sono spiegate con troppa faciloneria, cercando ad ogni costo di attirare consenso e senza prestare troppa attenzione a cosa veramente prevede questa fondamentale riforma. E proprio perchè si tratta di modificare la nostra Carta Costituzionale, bisognerebbe basare il nostro ragionamento critico su elementi oggettivi e alla stregua dei parametri costituzionali contenuti nella prima parte della Costituzione, vera e propria anima del nostro ordinamento.
Per questo, oggi vorrei tentare di screditare alcune false ragioni che il variegato fronte del No sbandiera quotidianamente nelle televisioni, nelle radio e sui giornali. Scopo del mio operato non vuole essere quello di criticare a priori il fronte di chi si oppone alla riforma, bensì quello di invitare a liberarsi da queste (false) critiche per concentrarsi su altri profili critici della stessa, magari aventi più fondatezza giuridica e costituzionale.
- “I cittadini non potranno eleggere i senatori”
Questa prima ragione è falsa semplicemente perchè i cittadini potranno scegliere i senatori al momento dell’elezioni dei Consigli regionali : essi procederanno infatti ad eleggere i senatori in conformità alle scelte degli elettori, come prescrivere l’art.57, norma che non potrà essere disattesa dalla legge elettorale del Senato che sarà sottoposta al giudizio della Corte costituzionale, come quella della Camera. In questo modo i senatori saranno quelli scelti dai cittadini, ma rimarrà anche il loro legame con i Consigli regionali; legame essenziale affinché il Senato rappresenti gli enti territoriali e svolga la funzione essenziale di raccordo tra tali enti e lo Stato.
Ci tengo a sottolineare che, ad essere sinceri, con il sistema attuale (e quindi con la vittoria del No) i Senatori non sono scelti dai cittadini, bensì dai partiti che decidono le composizioni delle liste elettorali.
2. “Aumentano gli sbarramenti per le leggi di iniziativa popolare ed i referendum”
Questo è falso perchè, al contrario, la riforma rafforza gli strumenti di partecipazione diretta da parte dei cittadini. Il Parlamento infatti avrà l’obbligo di esaminare e votare le proposte di legge di iniziativa popolare che oggi, purtroppo, non vengono quasi mai prese in considerazione. A fronte di questa nuova garanzia costituzionale, dato che le istanze popolari non potranno più rimanere inascoltate, è più che ragionevole che tali proposte abbiano un consenso minimamente significativo, cioè siano firmate da 150 mila elettori, un numero non difficile da raccogliere in sei mesi di tempo.
Per quanto riguarda l’istituto del referendum abrogativo, la riforma non modifica la norma attuale (500 mila firme con il quorum di validità pari alla maggioranza degli elettori aventi diritto), ma aggiunge un’altra possibilità: se le richieste sono firmate da 800 mila elettori il quorum è più basso, pari alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni della Camera. Per esempio, dato che nel 2013 ha votato il 75% degli elettori, se la riforma fosse già in vigore, il quorum sarebbe del 37,5% anziché del 50%. Una riduzione molto significativa che non consentirà più di ricorrere all’astensione per respingere il referendum: le ragioni del Si e del No dovranno confrontarsi apertamente.
Inoltre la riforma prevede anche l’introduzione dei referendum propositivi e d’indirizzo, la cui disciplina di attuazione è demandata ad apposita legge costituzionale.
3. “Non ci sarà una riduzione sostanziale dei costi della politica”
Anche questa ragione è falsa, ed i dati sono sotto gli occhi di tutti: con la riduzione del numero di senatori, l’abolizione del Cnel e l’abolizione delle Province si risparmiano 500 milioni di Euro. Ma risparmi di gran lunga più significativi deriveranno dalla riforma del titolo V, cioè dalla riduzione dei conflitti Stato-Regioni, e dall’accresciuta capacità decisionale e stabilità del sistema istituzionale conseguente al superamento del bicameralismo paritario.
Infatti con la riforma i senatori saranno solo 100 anziché 315 ed essendo anche consiglieri regioni e sindaci non percepiranno una indennità dallo Stato.Inoltre agli emolumenti degli stessi consiglieri regionali viene messo per la prima volta un tetto nazionale, di modo che non potranno superare l’importo di quelli attribuiti ai Sindaci dei Comuni capoluogo di Regione. Sono inoltre aboliti i rimborsi ai gruppi politici presenti nei Consigli regionali.
Ma di gran lunga più significativi sono i risparmi indiretti derivanti dalla semplificazione del sistema istituzionale e dalla riforma del Titolo V : basti pensare che dalla revisione del 2001 al 15 agosto scorso (dati pubblicati sul Sole 24 ore del 29 agosto 2016) vi sono stati ben 1420 ricorsi delle Regioni contro lo Stato o dello Stato contro le Regioni, che hanno prodotto 1899 sentenze della Corte costituzionale, di cui 996 di illegittimità. E’ difficile stimare quanto costa questo conflitto costante, ma alcuni numeri sono impressionanti. Per fare un solo esempio, il contenzioso con le Regioni per realizzare la linea elettrica tra Calabria e Sicilia è costato negli ultimi cinque anni circa 3 miliardi di Euro.
4. “Troppi procedimenti legislativi diversi e art.70 pasticciato”
Falso perchè i procedimenti legislativi saranno solamente due : quello ordinario, con decisione definitiva della sola Camera dei Deputati e che riguarderà circa il 95% delle leggi, ed il procedimento bicamerale paritario, che interesserà alcune specifiche materie elencate in Costituzione.
Nel procedimento ordinario la Camera esaminerà i disegni di legge, che su richiesta potranno essere esaminati anche dal Senato, il quale, entro tempi certi, potrà anche inviare pareri e proporre modifiche. Alla Camera poi spetta la decisione definitiva. Come detto, questo iter riguarderà la stragrande maggioranza dei testi legislativi : giusto per fare un paragone, se la riforma fosse già stata in vigore in questa legislatura l’iter ordinario avrebbe riguardato 173 leggi su 178.
Il procedimento bicamerale paritario, invece, rimane per le leggi Costituzionali ed altre materie puntualmente elencate nell’art.70 della Costituzione: tra esse ricordiamo quelle circa le minoranze linguistiche,i referendum, l’ordinamento ed il sistema elettorale di Comuni e Regioni, le leggi quadro per l’attuazione delle normative europee (non le leggi annuali per recepire le direttive),il sistema elettorale del Senato, i casi di incompatibilità e ineleggibilità dei senatori, la ratifica dei trattati relativi all’Unione europea ed altre regole più specifiche riguardanti le Regioni.
Risulta dunque ovvio che il nuovo art.70 dovrà necessariamente essere più lungo della versione attuale: se Camera e Senato fanno esattamente le stesse cose occorrono poche parole per dirlo e bastano le due righe del vigente articolo 70, ma se invece fanno cose diverse occorre ovviamente specificarle con precisione.
5. “Pericolo di deriva autoritaria: il Parlamento verrà sottomesso al Governo ed esautorato”
Falso, falsissimo.
Il superamento del bicameralismo paritario rafforza più il Parlamento del Governo. Infatti viene messa la parola fine all’abuso della decretazione d’urgenza, del ricorso al voto di fiducia e alla prassi dei maxi-emendamenti.
Da decenni i governi di ogni colore politico abusano dello strumento dei decreti legge, il quale dovrebbe essere adoperato so in casi di straordinaria necessità ed urgenza. Con la riforma non sarà più così perché essa pone limiti rigorosi alla decretazione d’urgenza, limiti costituzionali che non potranno essere disattesi (dovranno recare solo “misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”). Su tali limiti vigilerà, inoltre, il Presidente della Repubblica che potrà negare la propria firma con molto più rigore rispetto ad oggi, forte di due altre novità introdotte dalla riforma:
a) il Governo potrà utilizzare una strada alternativa alla decretazione d’urgenza (oggi inesistente), vale a dire i disegni di legge ordinari con voto “a data certa” (entro 75-90 giorni), per l’attuazione del programma di governo (la c.d. “corsia preferenziale”)
b)il differimento di trenta giorni per la conversione dei decreti legge nel caso in cui il Presidente della Repubblica li rinvii alle Camere a causa dell’inserimento di misure estranee rispetto al loro contenuto originario; un rinvio oggi di fatto impraticabile perché non vi è il tempo, nei sessanta giorni di efficacia dei decreti, per un nuovo esame e una nuova deliberazione parlamentare.
Auspicabilmente dunque, grazie alla riforma i futuri Governi non saranno più privi di strumenti per attuare il programma di governo e non saranno più connotati da quella debolezza parlamentare che li induceva ad essere prepotenti verso le camere.
Ma oltre alla questione relativa ai decreti legge, sarà proprio il superamento del bicameralismo a rafforzare soprattutto il Parlamento. Prevedendo, infatti, che una sola camera accordi la fiducia al Governo, la riforma da più autorevolezza e centralità alla sede unica della sovranità popolare. Il bicameralismo paritario ha nuociuto alla stabilità e all’efficacia dell’azione di governo, ma anche alla autorevolezza e alla centralità della sede della rappresentanza nazionale, costretta a disperdersi in due rami. Ripetitività e lungaggini hanno reso più facili gli ostruzionismi di maggioranza e di minoranza e hanno favorito i gruppi di pressione interessati alla moltiplicazione delle sedi di negoziazione.
Per dirla con le parole del Prof. Ugo Rescigno, “l’Assemblea popolare unica è più diretta, immediata, conoscibile, controllabile, più esposta alla critica dell’opinione pubblica”.
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