Partiti e politici
Vendesi miracoli: mille pezzi di sinistra, per rifarne una
Seguo in bicicletta le tracce eco-chic di un calzino a righe sottili, di un panta molto largo e corto alla caviglia, di una francesina ai piedi, quell’elegante sinistra persa nel tempo, scommettendoci sopra un mezzo euro che mi porteranno a teatro per una première dal vago sapore malinconico. Bastano una cinquantina di metri, appena passata la galleria Alberto Sordi, e il mio orgoglio per la decrittazione di segnali inequivocabili prende forma compiuta appena la bellissima signora bacia il rospo, il solito vecchio compagno comunista dalla giacca sfondata, il maglione sbrindellato, un libro introvabile che spunta dalla tasca. Siamo al Quirino, che nei tempi più recenti è diventato anche Teatro Gassman, perché lo si ricordi che quello era un genio visto che lo diciamo anche di Elio Germano.
Qui si è data appuntamento Sinistra Italiana – logo in rosso su fondo giallo –, nuovo gruppo parlamentare della sinistra composto da 31 deputati (25 di Sel e 6 ex Pd), mentre per i senatori il debutto è solo rinviato. E se dobbiamo attribuire agli stracci il valore che meritano, si preciserà subito che nel gran trambusto di mille sinistre che oggi provano la fusione fredda in una mattina primaverile di novembre, non v’è l’ombra del tacco 12 che domina implacabilmente la scena in Transatlantico, attribuibile alla pattuglia renziana e non solo quella della primissima ora e dunque pienamente nei diritti civili di imporlo a chicchessia, ma pure alle renzianine di risulta che magari un tempo erano bersaniane giudiziosamente mocassinate e che oggi s’ergono su trampoli allora sconosciuti e fors’anche odiati. Ecco, di tutto ciò non v’è traccia, si diceva, per cui, il tema vestimento è un primo, visibile, inappellabile spartiacque.
Valentino Parlato e, a destra, Aldo Tortorella, al raduno di Sinistra Italiana – Roma
Ricomporre la «Sinistra italiana» in un sabato italiano è impresa particolarmente densa e le facce da gita sociale che accompagnano la festa raccontano che forse c’è ancora gioia nell’impagabile reducismo ma non altrettanta consapevolezza, né speranza che la questioncella si faccia davvero. E poi su tutto c’è un’ombra gigantesca, perché questi vecchi alpini del comunismo rifiutano il figliastro toscano, e su questo semmai ci impiantano la ragione sociale dello stare insieme, ma vorrebbero tanto un padre, che invece proprio il giorno prima gli ha dato dolorosissima buca. Lo Smacchiatore di ghepardi ha deciso giudiziosamente di fermarsi all’ultimo miglio, raccontando la sua verità a fratelli che sbagliano. Non si lascia la ditta, ragazzi. E dunque non contate su di me.
Ma se non c’è Bersani, che della ditta era almeno consigliere di amministrazione, a chi dovremmo tributare, fuori dal teatro, un’ovazioncella di complemento? Qui bisognerà fidarsi degli operatori della televisione che sono accorsi in massa neppure si trattasse della conferenza stampa di Valentino fresco dell’impresa mondiale di Valencia. E le telecamere piombano compatte solo su Fassina, che di tutto l’ambaradan appare il più solido e anche vagamente cazzuto. Infatti aprirà lui le danze al microfono, respingendo subito la malizia bersaniana di fare il gioco della destra: «Qui il gioco della destra – alza la voce – lo fa chi fa la destra con il jobs act, con l’Italicum, con la riforma del Senato e della Rai». In platea scatta l’applauso, sarà quello più fragoroso e sentito, niente a che vedere con il grande freddo della sala che accompagna “il saluto che ci ha mandato il compagno Sergio Cofferati”, di cui tutti ormai hanno capito tutto, compresa la sua famosa promessa, durata lo straccio di qualche settimana, di tornare a lavorare in Pirelli. Fassina ci piazza anche un Papa Francesco che di questi tempi non guasta mai: “Ci sentiamo vicini alla strada che ha tracciato…” Alla fila trenta, o giù di lì, c’è anche Giorgio La Malfa e non si capisce se non ne perda una, di convegnistica, o se passando di lì, in quel momento, abbia deciso di ficcarci il naso. Arriva trafelato anche Curzio Maltese in quota Tsipras, un’oretta e mezza di ritardo sull’evento, più o meno lo stesso di quando, giovane cronista sportivo, arrivava a Milanello che s’era fatto ormai il deserto, per cui gli necessitava di scrivere meglio di tutti noi, dovendosi inventare ogni cosa.
Le ragioni dello stare insieme sono scandite alte e forti, precisando, com’è giusto, che questo stare insieme è solo da gruppo parlamentare perché nessuno s’azzarda adesso, e come potrebbe, a parlare dell’ennesimo partito di sinistra che dovrebbe cercarsi dei voti, carne e sangue finale della politica. Ognuno ha i suoi tre bei foglietti di appunti, ognuno parla di emozioni ritrovate, ognuno pensa di vivere un momento importante. Ma ognuno sa anche della propria malinconia, e sa che il futuro è di Renzi. Per questo in fondo è una bella sala, perché non ci si raccontano troppe bubbole.
Manca il Pierino, il solito. Al grande Paolino Fedeli, che ha memoria di tutti questi anni, sorride lo sguardo: «Siamo alle solite: io, io, io… non va oltre se stesso. Ti ricordo che era alla prima Leopolda, il marchio è quello». Chi sta pensando a Pippo Civati vince una bambolina.
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