Partiti e politici
Province elettive, la Sicilia sfida il Governo davanti alla Consulta
Palermo – È passata nel silenzio generale, quasi sotto traccia, la decisione della Giunta della Regione Siciliana di difendere davanti alla Corte Costituzionale la legge regionale n. 17/2017, con la quale nell’agosto scorso la precedente Assemblea siciliana, fra gli ultimi atti della legislatura sotto la presidenza di Rosario Crocetta, ha ripristinato l’elezione diretta dei vertici delle ex Province. È rimasta tra le pieghe degli atti ufficiali e di certo offuscata dalle recenti turbolenze politiche all’interno della coalizione di maggioranza. Tra un’annunciata abolizione del tetto degli stipendi dei dipendenti e un deputato che suona la zampogna per celebrare fine la della detenzione domiciliare.
Con la deliberazione n. 507 del 30 novembre 2017, il primo provvedimento del nuovo esecutivo siciliano ha autorizzato la Regione Siciliana, nelle mani del neo eletto Presidente Nello Musumeci, a costituirsi e resistere nel giudizio che si celebrerà dinnanzi alla Corte Costituzionale, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha impugnato la legge regionale con cui la Sicilia, in contrasto con i principi della Riforma Delrio, ha ripristinato l’elettività degli organi politici provinciali.
La Legge regionale n. 17/2017. Di cosa si tratta? – Il 10 agosto 2017 l’Assemblea regionale, invocando l’art. 15 dello Statuto speciale, che attribuisce alla Sicilia piena autonomia in materia di organizzazione degli enti locali, ha approvato a larga maggioranza il disegno di legge n. 1307-1282/A (dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Regione, assumerà la denominazione di Legge n. 17/2017, ndr), ripristando l’elezione diretta del Presidente dei Liberi Consorzi di Comuni e del Sindaco metropolitano, oltreché dei rispettivi Consigli.
I vertici delle ex Province, nonostante l’abolizione del suffragio diretto da parte della Legge Delrio, in Sicilia (unico caso in Italia) sono tornati elettivi, chiamando i cittadini siciliani a recarsi alle urne, secondo il testo, in una data ancora da stabilire fra il 1 gennaio e il 28 febbraio 2018. Forse, ora, fra marzo e aprile prossimi.
La Legge n. 17/2017 prevede che il Consiglio del Libero Consorzio comunale sia composto da un Presidente e da 18 consiglieri nei consorzi con una popolazione residente fino a 300.000 abitanti, che diventano 25 in quelli con una popolazione compresa fra i 300.000 e i 600.000 abitanti. Numeri ben più alti, invece, per i membri del Consiglio metropolitano: il Sindaco metropolitano verrà assistito da un’assemblea di 30 componenti nelle Città metropolitane con non più di 800.000 abitanti. Per quelle a maggiore densità, i componenti saranno 36. Sia per il Presidente del libero Consorzio che per il Sindaco metropolitano è stata prevista un’indennità di carica pari a quella spettante al Sindaco del capoluogo comunale. Ai componenti dei Consiglio, invece, spetterà la stessa remunerazione dei consiglieri del comune capoluogo del Consorzio o della relativa Città metropolitana. I membri delle Assemblee non percepiranno alcuna indennità.
La legge approvata dall’Assemblea regionale siciliana ha provocato la decadenza dalla carica di Sindaco dell’Area Metropolitana per i sindaci di Palermo, Messina e Catania, obbligando la Giunta di Palazzo dei Normanni alla nomina di un commissario straordinario incaricato di gestire l’Area metropolitana fino alle prossime elezioni.
La reazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Il provvedimento varato in agosto dalla Regione, a pochi giorni dalla pausa estiva dei lavori e prima dello scioglimento del ‘parlamentino’ siciliano, è stata la prima legge regionale a reintrodurre il sistema di elezione diretta degli organi politici provinciali, portando la Sicilia nella direzione opposta a quella voluta dalla Riforma Delrio, la quale, al contrario, aveva previsto un meccanismo di nomina indiretta di secondo grado.
Eppure, ben consapevoli di violare le norme imposte dal Legislatore nazionale, i deputati dell’Assemblea siciliana non hanno esitato ad approvare una legge che già sapevano che sarebbe stata impugnata perché in contraddizione con i principi di una riforma nazionale.
D’altronde, la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva già impugnato una normativa analoga a quella approvata ad agosto, proprio perché in violazione di quanto deciso dal Parlamento. E, così, infatti è stato. Il Governo, che aveva a disposizione 60 giorni dall’entrata in vigore del testo per l’impugnazione della legge siciliana dinnanzi alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione, ha presentato ricorso il 13 ottobre scorso contro il ripristino dell’elettività dei vertici delle Province dell’Isola.
Lo Statuto della discordia e la difesa della Regione Siciliana – Al di là dei tecnicismi della questione, il nodo è politico. L’intento dell’esecutivo siciliano è quello di forzare i rapporti di equilibrio fra Roma e Palermo, utilizzando il tema delle Province come grimaldello per riaprire la questione sull’autonomia statutaria. Sono anni che il Governo cerca, a colpi di provvedimenti, di ridimensionare l’autonomia statutaria della Sicilia, che non solo non ha pari nelle altre Regioni a Statuto speciale, ma rappresenta una voragine senza fine per la tenuta dei conti dell’Isola e di Roma.
Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea, dimostrando l’orgoglio e il disprezzo gattopardesco per chi decide da fuori delle cose siciliane, ha sempre opposto una resistenza ostinata al ridimensionamento dell’autonomia, lanciandosi a colpi di delibere della Giunta e leggi dell’Assemblea in una tenzone nei confronti dei desideri del Governo. In un gioco delle parti, deleterio per gli interessi, anche economici dei cittadini, come l’Orlando risoluto dell’Opera dei Pupi, la Sicilia si difende, attacca e rilancia.
L’art. 15 dello Statuto della Regione, approvato con legge costituzionale e avente di essa il valore, attribuisce alla Sicilia il potere esclusivo di disciplinare in autonomia l’ordinamento degli enti locali. La Legge n. 56/2014 (c.d. Delrio), ridisegnando i principi dell’organizzazione amministrativa del Paese, definita pertanto ‘grande riforma economica e sociale, ha eliminato l’elettività dei vertici provinciali. Essa, ancorché legge ordinaria (con un rango inferiore quindi allo Statuto siciliano) ha la forza di imporsi sull’autonomia delle Regioni a Statuto Speciale o la Sicilia rappresenta un enclave intoccabile ed inespugnabile?
I principali rilievi di incostituzionalità riguardano il sistema di elezione degli organi di governo e alla previsione di una loro remunerazione, di certo in contrasto con i principi della disciplina di coordinamento di finanza pubblica.
A complicare la trama della vicenda ci si è messo anche il Tar di Palermo. Il Tribunale amministrativo regionale ha sospeso l’efficacia della parte di provvedimento del Presidente della Giunta che aveva dichiarato decaduti da Presidenti dell’Area metropolitane i rispettivi Sindaci di Palermo e Catania. La sospensione della decadenza ha fatto, a sua volta, decadere i Commissari straordinari, che erano stati nominati in sostituzione dei Sindaci fino alle elezioni ancora da indire. La sistematicità della provvisorietà. Un’arte tutta italiana.
La data dell’udienza deve essere ancora fissata e non sarà a breve. Sul proscenio dell’aula della Consulta c’è la compatibilità della Legge regionale n. 17/2017 con la riforma Delrio, ma, a ben vedere, sullo sfondo c’è la questione giuridica dei limite del potere statutario siciliano e quella politica della sua attualità.
Alla Corte Costituzionale spetta porre i limiti, ancora una volta dopo 70 anni dall’approvazione dello Statuto, fra potere regionale e nazionale. Alla politica, quello di decidere se l’autonomia statutaria, così come congegnata nel secondo dopoguerra, è ancora compatibile con il sistema amministrativo nazionale e se è ancora sostenibile per l’interesse nazionale.
I principi generali della legge dello Stato finiscono per essere recessivi di fronte ai poteri statutari della Sicilia attribuiti con legge costituzionale? Se così venisse stabilito, la Sicilia riceverebbe, da parte della Corte Costituzionale, il riconoscimento di fatto di un’autonomia tale da mettere in crisi l’unità e l’unitarietà dell’ordinamento nazionale. Questo è l’interrogativo cui sono chiamati a rispondere i giudici della Consulta, alla quale ancora una volta, la politica si arrende, abdicando alla propria funzione di decisore. È un arco etrusco, un equilibrio precario, quello dei rapporti politici fra Palermo e Roma – direbbe Alessandro Robecchi – in cui ogni pietra sostiene l’altra, dove l’illusione e la delusione si incontrano e si puntellano a vicenda. E che ancora una volta trema sotto il peso dell’abulia della politica e del Legislatore.
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