Partiti e politici
Sicilia, Italia: dove si può scegliere tra il passato e la rabbia
Nel pieno dello spoglio, ancora lontano dal chiudersi a quasi ventiquattr’ore dalla chiusura delle urne per l’elezione del presidente e del consiglio regionale di Sicilia, alcuni dati sono consolidati e possono già essere archiviati come materia di studio e analisi.
Il primo e più chiaro, è il ritorno del centrodestra di matrice berlusconiana come forza pienamente competitiva nel consenso popolare, e quindi titolata a candidarsi seriamente a guidare nuovamente il paese. Poco importa, per ora, se non c’è chiarezza sulla leadership nazionale, a fronte dell’incandidabilità dell’ottantunenne Silvio Berlusconi: a livello locale, in una Sicilia che ha tante volte anticipato la rotta degli eventi politici nazionali, come ricordato anche di recente da Paolo Natale, al centrodestra per vincere “basta” candidare una persona credibile all’interno di una coalizione compatta. Su questo punto, vale la pena di sottolineare due elementi. Anzitutto, Musumeci è tutt’altro che un uomo nuovo, è un politico professionista, di lungo corso, era alla terza candidatura da presidente, ed era già stato candidato cinque anni fa dal Pdl. Allora arrivò secondo, raccogliendo il 25% dei consensi, e non fu eletto presidente perché una fronda interna al centrodestra portò Gianfranco Miccichè a candidarsi da solo, col sostegno dei finiani (come vola il tempo). Miccichè prese allora il 15% classificandosi terzo e oggi, tornato all’ovile, nel ruolo di coordinatore regionale di Forza Italia è tra i primi a rivendicare la vittoria, autoattribuendo a sè e al suo schieramento, addirittura, “un miracolo”. Il miracolo forse c’è stato, ma è tutto nel campo della tattica politica: rinserrare le fila di una coalizione e raccogliere tutti i voti che stavano nel perimetro, e che prima erano divisi.
A proposito, si sta facendo un gran parlare dell’affluenza e, soprattutto, della bassa affluenza. Un paese fortemente politicizzato, come questo, ci aveva abituato nei decenni scorsi a forte partecipazione e ad alta affluenza. Non è più così da un po’, e questo voto siciliano non è più una novità, ma una conferma. Basti pensare che cinque anni fa, quando fu eletto Rosario Crocetta, a votare furono poco più del 47% degli aventi diritto, mentre oggi sono appena poco meno. L’affluenza è sostanzialmente stabile, quindi, e per essere precisi se cinque anni fa avevano votato 2.203.165 siciliani, questa volta sono andati a in 2.179.332. Ventimila in meno, su 4.660.111 aventi diritti. Nessun crollo, dunque, almeno rispetto all’ultima elezione equipirabile.
La sostanziale tenuta quantitativa dell’affluenza alle urne consente di valutare meglio chi è cresciuto e chi ha perduto davvero. Di Musumeci e del suo centrodestra abbiamo già detto. Diventa presidente conservando il perimetro tardo novecentesco di Berlusconi: la somma totale dei consensi riporta in fondo alle dimensioni, seppur ridimensionate, degli anni gloriosi dei tronfi del cartello Forza Italia & Alleanza Nazionale. Chiamare “sconfitti” i Cinque Stelle significa ignorare che alla fine Giancarlo Cancelleri – lo stesso candidato di cinque anni fa, anche per loro – prenderà circa 300 mila voti in più rispetto al 2012. Poco meno del doppio, rispetto al suo risultato di allora, e meno di centomila voti in meno di Musumeci. Un risultato enorme e, tutto sommato, ottimale: perché restituisce uno spazio di opposizione forte a un governo regionale che avrà bisogno del soccorso numerico di qualche eletto nel centrosinistra di Micari e Alfano, ed evita soprattutto di doversi cimentare con un’altra prova di governo davvero impervia, che in confronto l’incasinatissima Roma di Virginia Raggi sembra una passeggiata. Anche la scene di Di Maio che prima invita Renzi alla sfida in tv, poi lo “pacca” sottolineando che non si sa se è più il leader del Pd, suscitando la risposta del segretario che si dispiace “più da padre che da politico”, è di quelle che non lasceranno il segno tanto a lungo.
Chi ha perso indubitabilmente, invece, sta tutto nel campo del centrosinistra, col trattino, senza trattino, che sia governista, movimentista, renziano o anti-renziano. In termini assoluti, la candidatura di un esponente della società civile vecchio stile, il Professor Fabrizio Micari, non ha evidentemente trovato la lingua e gli strumenti giusti per raggiungere il consenso al di fuori delle appartenenze politiche. Non ha sfondato al centro, come si diceva una volta, e non ha dato l’impressione di essere davvero una novità. È sembrato semplicemente il candidato del Pd, peraltro caldamente sostenuto da un segretario che alla vigilia del voto ha auspicato che vincesse il migliore. Dalle parti del Pd tra le varie formule di difesa si sta facendo largo l’idea di contare i voti di lista, quelli di oggi saranno forse un po’ di più di quelli di Crocetta cinque anni fa. Crocetta però vinse con il 30%, mentre Micari arriva terzo con meno del venti, e questo già basterebbe a chiudere il discorso. Alla sinistra del Pd non va meglio, peraltro, anzi. Cinque anni fa le liste che sostenevano Fava Presidente, e che dovettero poi cambiare candidato perché lo stesso Fava non risultava residente in Sicilia, chiusero attorno al 6%. Non andrà tanto meglio stavolta, nessuno potrà dire che Micari ha perso per colpa loro (anche se qualcuno lo ha già detto, ops), ma non è una grande consolazione. O almeno non dovrebbe esserlo.
Ma in tempo di idee scarse e di successi nulli, si sa, ci si fa bastare poco, anche niente.
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