Partiti e politici

Minniti si ritira, perché ha capito che Renzi se ne va

5 Dicembre 2018

Sono settimane che il piano è inclinato, ma da oggi il punto di non ritorno sembra definitivamente segnato. Marco Minniti sarebbe pronto ad ufficializzare il suo ritiro dalla corsa a segretario del Partito Democratico. Doveva essere lo sfidante di Nicola Zingaretti, candidato favorito sostenuto dalla gran parte degli ex Ds. Doveva raccogliere l’eredità del renzismo senza restarne schiacciato. Doveva fare tante cose, ma a quanto pare non ne succederà nessuna.

Mano a mano che si sono intensificate le voci di una scissione renziana, di un nuovo movimento pronto a nascere alla destra del Pd, Minniti ha atteso lungamente un gesto, un segno, una smentita. Ha atteso che proprio Renzi dicesse chiaramente che non era vero niente, e che anzi si marciava compatti e uniti per rilanciare il Pd. Solo che a raccontare delle tentazioni di scissione renziana erano diversi cronisti che, in passato, avevano raccontato con precisione e in anticipo le decisioni dell’ex segretario ed ex presidente del Consiglio. Per fare un nome, Maria Teresa Meli, giornalista del Corriere della Sera che da sempre interpreta e riporta in maniera chiara e spesso solitaria le vere intenzioni del leader fiorentino.

Anche questa volta non è andata diversamente  e Minniti, che frequenta palazzi, partiti e retroscena da un po’ ha capito l’antifona. Ha chiesto chiarimenti e non li ha ottenuti. All’incontro con Luca Lotti e Guerini, come raccontato tempestivamente da David Allegranti sull’edizione online del Foglio, avrebbe chiesto semplicemente che chiunque si impegnasse a sostegno della sua candidatura promettesse da subito di non lasciare il pd. Richiesta irricevibile dai due luogotenenti renziani: e dire che, se la memoria non ci inganna, la stessa richiesta è implicita anche nello statuto del Pd e nel regolamento delle primarie, visto che vi partecipa si impegna a votare il Pd, chiunque sia il vincitore.

Evidentemente, e da un pezzo, ormai, il dado era tratto. Difficile dire, a questo punto, di chi sia la colpa, anche se resta netta la sensazione che la politica renziana, quella di Matteo Renzi e dei suoi rumorosi accoliti, non si riesca più a concepire se non come politica di guida e comando diretto di una struttura, per quanto piccola. Già, perché la sfida vera dovrebbe restare la stessa, cioè la conquista del paese, tanto più in un momento in cui il parlamento è in tutt’altre mani. E invece lo scenario che si para davanti è tutto diverso: due (o più?) partitini pronti a sfidarsi tra di loro per regolare conti incomprensibili al resto del mondo, magari pronti a esultare per qualche decimale in più dell’altro ma rigorosamente a cifra singola, mentre nel mondo, là fuori la realtà succede. Ma siccome sfidare Salvini e Di Maio significa perdere, tanto vale concentrarsi su sfide più abbordabili. E fa niente se vincerle risulterà del tutto inutile.

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