Partiti e politici

Se Moro avesse dovuto twittare. La comunicazione politica nell’era di Trump

13 Novembre 2016

Lascia che parlino prima loro, tanto uno che comincia c’è sempre. Non dire dolorosamente, o soffertamente, o tristemente, e soprattutto magmaticamente, come fai sempre. Ricordati che tanto loro non ti credono, come tu non credi a loro. Parla difficile, solo se non hai niente da dire

Sono queste le parole che sussurra corrucciata un’imbruttita Mariangela Melato al contrito Presidente (Gian Maria Volonté) protagonista di “Todo Modo”. Un film a suo modo “maledetto”, firmato dal regista dell’impegno civile Elio Petri e spedito nelle sale italiane nel 1976, solo due anni prima che le Brigate Rosse condannassero a morte l’uomo politico così magnificamente caricaturizzato da Volonté, il già Presidente del Consiglio e segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro. È proprio il suo volto tirato e pensoso, con il caratteristico ciuffo che siamo abituati a distinguere nelle foto in bianco e nero dell’epoca, a campeggiare sulla copertina di “Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma”, il volume di Guido Formigoni edito da Il Mulino e da poco in libreria. Non sappiamo se un dialogo simile sia mai avvenuto tra il politico e la consorte, ma è uno scambio di battute volutamente crudele che ben rende l’opinione che una parte dell’Italia aveva allora di Moro: uomo moralmente ineccepibile, ma prigioniero di una retorica fine a sé stessa ed eccessivamente criptica, quasi una “lingua per iniziati” la cui esegesi spettava ai più fini giornalisti e osservatori. È una visione che Formigoni, come ha scritto Mauro Campus sul domenicale de Il Sole 24 Ore, cerca però di lasciarsi alle spalle, evitando con accuratezza gli stereotipi di “proverbiale compostezza” e “malinconica indecifrabilità” che ne hanno da sempre contraddistinto la figura.

È il dramma dello statista ad essere al centro della ricostruzione dello storico. Il dramma insito nella stessa attività politica, in perenne equilibrio tra il legittimo desiderio di mantenersi fedele ad una propria visione della società e della storia e l’ineludibile esigenza di scendere a compromessi, per conferire a quella visione la duttilità necessaria a non cozzare eccessivamente con la realtà. Una politica, quella di Aldo Moro e della Democrazia Cristiana, che era attività nobile nutrita di ideali politici universali, condizionata da pressioni geopolitiche difficilmente aggirabili. Nel mondo cristallizzato della Guerra Fredda e in un Paese occidentale con un Partito Comunista protagonista della scena politica, ogni scelta politica assunta da un Governo si caricava infatti di pesanti risvolti sul piano nazionale e internazionale, forzando gli attori ad una defatigante e continua mediazione. L’Italia che emerge dalle pagine del volume di Formigoni è caratterizzata da forze sociali che l’impetuosa crescita economica mette di fronte a situazioni inedite di benessere e progresso e a cui la Politica reagisce con studiata cautela e infiniti temporaggiamenti. Le elezioni, per restare su un tema tipico dell’attuale dibattito referendario, sono quasi equiparabili alla registrazione di un sismografo: dalle più o meno impercettibili variazioni degli equilibri di forza tra i vari attori in campo derivano coalizioni parlamentari modulabili, con la Democrazia Cristiana a fare da perno e baricentro politico del sistema.  Da qui forse quell’esigenza, irrisa con amaro sarcasmo nel film di Elio Petri, di ricorrere a formule astruse e volutamente indecifrabili (le ossimoriche “convergenze parallele”) e di diluire messaggi di rottura all’interno di riflessioni di durata oggi intollerabile (il mitico discorso di sette ore che Moro tenne al congresso Dc di Napoli per preparare l’avvento del centrosinistra).  “Dolorosamente” e “magmaticamente” anche per via di un pessimismo di fondo che possiamo interpretare come un’inevitabile conseguenza di un assetto politico così asfittico, abituato a procedere a forza di strappi e ricuciture, spesso attanagliato dal dubbio di non essere in grado di fare davvero il bene di una collettività che diventava estranea e sorda alle vecchie formule. Come riassunto efficacemente da Campus, dalla ricostruzione di Formigoni emerge un Moro statista, “apparentemente duttile, ma irremovibile” e “capace di far filtrare le domande della società presso il suo partito”. Da questa visione deriva dunque anche lo spirito di apertura che lo ha reso, insieme ad Enrico Berlinguer, uno dei protagonisti della stagione del “compromesso storico”: “egli individuava” conclude Campus “nella legittimazione reciproca delle forze politiche l’antidoto per irrobustire gli istituti di una democrazia bloccata”.

Quella in cui viviamo oggi, se confrontata con l’Italia della Prima Repubblica, sembra invece essere una democrazia decisamente sbloccata. Cadute le paratie che separavano le sfere di influenza di Stati Uniti ed Unione Sovietica, sviluppatosi in modo inaspettatamente compiuto il processo di integrazione europea e dispiegatosi appieno il fenomeno della globalizzazione (con i suoi lati positivi e negativi), sono altri i fattori che sembrano bloccare il nostro sistema politico. Un’inaggirabile tendenza all’irriformabilità delle istituzioni, le spinte centrifughe verso il livello locale che hanno progressivamente svuotato di legittimità il centro, un deficit di fiducia nei confronti dei partiti che spinge ampi strati dell’elettorato a rifugiarsi nell’astensione o a optare convintamente per movimenti che si propongono di “mandare a casa” un’intera classe politica.  A livello internazionale, tramontate le grandi ideologie, è il vento del populismo e dei nazionalismi a spirare sempre più forte. Possiamo scegliere di cavalcarlo appieno con il desiderio di scardinare il sistema e sostituirci all’establishment (modello Trump, la cui riuscita nel lungo termine è tutta da testare) o articolare una visione più ottimistica della situazione facendocene convinti assertori (modello Renzi, il cui futuro è appeso al filo del referendum).

La lettura del saggio di Formigoni è affascinante anche per il contrasto con la congiuntura storica in cui ci troviamo: l’oratoria di Moro fa parte di un modo di fare politica che appare oggi non solo inattuale, ma anche totalmente inefficace. Viviamo un’epoca di istantaneità in cui, paradossalmente, per problemi sistemici (la stagnazione economica, la crisi migratoria, la delegittimazione della politica) sembrano più in voga soluzioni immediate e poco elaborate. L’ormai proverbiale “pancia dell’elettorato” è obiettivo primario di certa politica e a questa si indirizzano gli strali di chi non vuole cedere al virus populista. Un po’ ingenuamente, c’è chi attribuisce la deleteria iper-semplificazione del linguaggio politico ad una generica mediatizzazione oppure, nella versione più aggiornata, all’avvento dei social media. Certo, Moro sarebbe stato un pessimo twittatore e difficilmente la sua retorica fluviale sarebbe stata condensabile in un semplice post su Facebook. Tuttavia,  l’Italia che leggeva su un quotidiano i resoconti dei discorsi ai Congressi di partito o ascoltava in una piazza l’ennesimo comizio non esiste più. O meglio, è cambiato il modo stesso di informarsi e di formarsi una propria opinione politica. Possiamo, e dobbiamo, rincorrere piuttosto gli elettori nei nuovi spazi, adattando il linguaggio alle esigenze di rapidità e diffondendo i nostri messaggi nel modo più efficace e capillare possibile. Oppure, possiamo continuare a parlare la lingua del passato nella convinzione di resistere ad una deriva che è solo passeggera. Prendiamoci pure il tempo di riflettere, ma intanto vince Trump.

 

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