Partiti e politici
Schlein, le idee senza partito. Meloni, la forza e il nervosismo del potere
Due donne allo specchio. Ognuna nel proprio. E in quello – così diverso dal proprio da sembrare deformante – del corpo politico dell’altra. Sono loro le protagoniste di questa fase politica e, in maniera particolare, dei giorni che abbiamo alle spalle e di quelli che iniziano. Lo sono perchè la settimana passata si è aperta con l’analisi dei ballottaggi delle elezioni amministrative, una tornata elettorale che ha registrato un netto rafforzamento della destra di governo e, di contro, un indebolimento delle opposizioni, e del Pd in maniera particolarmente significativa. All’interno del Partito Democratico è già partito il tradizionale treno che punta a travolgere chi comanda, cioè appunto Elly Schlein. Andiamo con ordine, partiamo da qui.
Da un lato, un’osservazione pacata della realtà, mentre registra un’indubbia sconfitta, non può che dare un’altra chance alll’operato della nuova segretaria. Del resto, si è trattato di una tornata elettorale di proporzioni ridotte e di sole elezioni comunali. Ha dunque ragione Paolo Natale, su queste pagine, a scrivere che è presto per dare giudizi definitivi sul Pd di Schlein. Tuttavia, sempre Natale, e sempre a ragione, spiega che questo voto rafforza la sensazione di essere all’inizio dentro a un ciclo solido di “destra forte”: una destra di governo costruita attorno alla leadership di Giorgia Meloni. È sicuramente anche la sensazione di ineluttabilità della sconfitta di medio periodo che ha subito acceso gli animi nel cuore del Pd. A spoglio ancora in contro hanno iniziato a emergere le critiche da parte di un apparato e di un gruppo dirigente che non ha mai digerito Elly Schlein. Del resto, come è stato ampiamente ricordato in questi giorni, Schlein il congresso tra gli iscritti lo perse, mentre vinse le primarie grazie al voto aperto ai non iscritti. È questo un elemento di non poco conto, sia per comprendere le reazioni di molta parte del gruppo dirigente a questo risultato, sia per analizzare la reazione della segretaria. Da un lato, infatti, chi non la voleva a capo del partito interpreta questa sconfitta come la diretta conseguenza della “radicalizzazione” delle idee del Pd. Nautralmente, il non detto è che una linea più pragmatica e tradizionale, meno antropologicamente radicale e movimentista, come quella interpretata dal candidato sconfitto Bonaccini, avrebbe più chance di contrastare con successo una destra forte. Non sappiamo se sia vero, ed è molto probabile che sia strumentale azzardare un’analisi del genere dopo un voto municipale che ha coinvolto un milione di italiani, e tuttavia la critica fa emergere sicuramente un punto di sostanza politica: la presa di Schlein sul suo partito è, al momento, davvero scarsa. Per non dire nulla. Piuttosto significativo, in proposito, è leggere alcune ricostruzioni del dopo-sconfitta, come quella pubblicata sul Corriere e firmata da Maria Teresa Meli. Mostra bene sia lo spaesamento della segretaria rispetto alla vita del partito e ai suoi cerimoniali, sia la sua solitudine durante le riunioni, e soprattutto dopo: con dirigenti tradizionalmente abituati a far quadrato difendendo l’indifendibile la mollano al primo stop, non avendola invero mai “presa”. I suoi colonnelli del resto sono uomini di molte stagioni, che fanno discendere la sconfitta di oggi a scelte fatte ieri: quando Schlein ancora non era iscritta al partito seppur si preparava a scalarlo, in effetti, ma loro già comandavano. E infine, probabilmente, Schlein paga davvero il conto di idee più radicali di quelle del corpo grosso del partito – sull’Ucraina, sull’economia, sulla GPA – senza averle mai non diciamo imposte, ma neppure portate a discussioni. Perchè, sapendosi minoranza, evita di spingere su una linea che la marginalizzerebbe ulteriormente. Ora, che senso ha guidare un partito in questo modo? Direte, a ragione, che è presto. E tuttavia, quando smette di essere troppo presto? La scommessa di Schlein è che le elezioni europee dell’anno prossimo, tendenzialmente più favorevoli per il voto urbano di opinione, le diano fiato e un buon risultato. Potrebbe succedere, e lei comprerà tempo. Ma i nodi già emersi “sono qui per restare” – come ha detto proprio lei, abbastanza piccata, parlando di se stessa. O si sciolgono, o strozzano.
Nell’altra metà del cielo della politica, solidamente piantata in mezzo ad ogni crocevia del futuro del governo e della destra italiana, c’è Giorgia Meloni. Se la settimana di Schlein è iniziata con una sconfitta, è perchè quella della presidente del Consiglio è cominciata con una vittoria. E tuttavia, il successo elettorale non sembra aver tranquillizzato Meloni nè, tantomeno, i suoi luogotenenti più fedeli, quelli che maneggiano i dossier più delicati, a cominciare da Raffaele Fitto, che ha in mano il PNRR. La vicenda che ha occupato stanze della politica e pagine dei giornali sui controlli della Corte dei Conti, e sulle modifiche normative che riguardano la sua potestà, è più una spia del nervosismo e della confiusione che imperano a Palazzo Chigi che non un segnale di “autoritarismo” – categoria evocata da Romano Prodi, parlando anzitutto della sistematica occupazione della Rai, in un’intervista rilasciata a Fabio Martini su La Stampa. Dopo essere intervenuti per prorogare uno scudo penale già istitutito da Conte e confermato da Draghi, Meloni e Fitto hanno introdotto una modifica legislativa che nega alla Corte dei Conti il “controllo concomitante e preventivo” sugli atti di spesa rilevanti per il PNRR. L’opposizione si è subito scagliata contro la norma, che ha suscitato anche la reazione di Bruxelles che ha mandato una blanda – e invero invisibile – nota critica. La quale è però diventata molto visibile grazie alla lunga e puntuta risposta del governo, che ha reso evidente una critica della quale nessuno – nè l’opinione pubblica nè la maggioranza degli addetti ai lavori – avrebbe avuto coscienza. Perchè? C’è, evidentemente, parecchio nervosismo, dalle parti di Palazzo Chigi. Meloni è sicuramente prudente e diffidente, per natura e per ambizione. Aggiungerei che viene da una cultura politica che ha fondato parte importante della propria identità sul vittimismo. Non escluderei che tutto questo conti, assieme alla paura di sbagliare qualcosa sulla partita più importante, quella del PNRR, proprio mentre si avvicinano le elezioni europee del 2024, vero banco di prova della tenuta della maggioranza ma anche – forsse soprattutto – degli equilibri interni a essa. La risposta stizzita, il riflesso passivo aggressivo, sono una buona idea? Lo vedremo, per intanto li registriamo come il segno di una forza cui manca la tranquillità: di un potere che teme che le crepe possano diventare voragini, e che ha paura più delle proprie ombre che dell’ombra di tre opposizioni.
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