Partiti e politici

Salvini parla di immigrati, Di Maio di lavoro, il Pd di se stesso

14 Luglio 2018

La fotografia perfetta del quadro politico del paese, la più precisa, forse, la restituiscono le coincidenze di un sabato pomeriggio di piena estate. Sta in pochi fotogrammi, in qualche dichiarazione, nella coincidenza che vuole, nelle stesse ore, alcuni fatti politici salienti prendersi la scena. Sono: l’ennesima nave carica di disperati che vaga nel sud del Mediterraneo in attesa che un porto l’accolga, dopo l’ennesimo “No!” pronunciato dal ministro degli interni Matteo Salvini; il “decreto dignità”, primo vero atto di governo firmato da Luigi Di Maio, che arriva all’approvazione accompagnato da una relazione tecnica del ministero che parla della perdita di ottomila posti di lavoro; e la discussione lunare, l’ennesima, che attraversa il Partito Democratico dopo la nomina della segreteria del segretario reggente Maurizio Martina.

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Salvini fa sempre la stessa mossa. Dice “no” allo sbarco, dice che senza una redistribuzione in tutta Europa non se ne parla, di fatto rilancia la sfida all’interno della coalizione e anche all’interno delle istituzioni, dopo che il presidente Sergio Mattarella appena pochi giorni fa aveva esercitato la sua moral suasion, consentendo di fatto alla nave della guardia costiera Diciotti di attraccare in un porto italiano. Salvini parla di un tema sentito, iper percepito finche volete, terribilmente enfatizzato dalle propagande televisive e non, in alcuni casi cinicamente costruito per fare consenso e audience. Tuttavia, parla di una questione che esiste, di un nodo epocale che attraversa il nostro tempo che avrebbe bisogno certamente di ben altra profondità e saggezza politica ad ogni livello. Ma la questione esiste, e come tale è sentita e vissuta dai cittadini. L’obiettivo di Salvini pare ormai chiaro: azzerare le partenze dopo mesi di voce grossa, e poi incassare tutto il dividendo di una disperazione fermata al di là del Mediterraneo.

Di Maio faticosamente cerca di tenere il passo, svantaggiato nel breve periodo da ministeri che consentono meno propaganda, e pongono questioni serissime e durature, come lo sono i cicli economici e i modelli di sviluppo (o il loro declino). Affronta questioni non da poco, come il cambiamento del lavoro in tempi di automazione, algoritmi che governano migliaia di fattorini, il ruolo del cittadino, quello del lavoratore e quello del consumatore. Interviene con l’accetta, probabilmente, e con tante semplificazioni che sono sempre di troppo, quando le questioni complicate. Si muove dentro ad apparati grossi, che si muovono per conto loro da quando lui era bambino, e probabilmente mischia obiettivi giusti a ricette manichee e forse controproducenti. Tuttavia, non c’è dubbio, si occupa, prova ad occuparsi di un’altra questione centrale, fondamentale: il tema del lavoro, i diritti dei lavoratori.

L’unico partito di opposizione, quello che si era impuntato rifiutando ogni ipotesi di partecipazione al governo proprio perché era giusto lasciare che governassero “loro” (“quelli che hanno vinto le elezioni”, diceva sempre Matteo Renzi che, forse preso da un eccesso sicuramente temporaneo di autocritica aveva perfino dimenticato che comunque il suo scalcagnato Pd aveva preso più voti della Lega) risulta stabilmente fuori dal mondo. Sui migranti balbetta generiche affermazioni di diritti mentre incassa il plauso di Salvini per il buon lavoro di Minniti; sul decreto dignità riesce al massimo a dar man forte alle stesse critiche mosse da quel che resta di Confindustria. Per il resto da un paio di giorni è impegnatissimo a discutere litigiosamente delle nuove nomine dei membri della segreteria, chiedendosi se Marianna Madia vada bene o no, se Gianni Cuperlo vada bene o no, e per il resto si avvia verso un congresso col trito rito delle primarie in cui la principale faglia di divisione sarà tra quelli che “Renzi è ancora una risorsa”, “Renzi non lo è mai stata”, “Renzi non lo è più”. A dire l’una o l’altra o l’altra cosa ancora, peraltro, saranno persone sprovviste della quota minima dell’unica risorsa indispensabile nella politica di oggi, cioè a dire la credibilità.

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Il tutto avverrà in un paese comprensibilmente sempre più indifferente ai destini di chi dovrebbe fare opposizione: e proprio adesso che ce ne sarebbe così tanto bisogno.

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