Partiti e politici

“Rifare l’Italia”. Perché Filippo Turati ci riguarda ancora 100 anni dopo

26 Giugno 2020

È uscito in queste settimane, Rifare l’Italia, di Filippo Turati, testo del discorso che il leader socialista tiene alla Camera dei deputati il 26 giugno 1920 (un secolo fa, oggi) Quel testo inaugura una collana di “Classici del socialismo” promossa da “Rivista storica del socialismo”. Una scelta opportuna, per molti aspetti, un testo manifesto per altri.

Non è la prima volta che quel testo torna in circolazione: esce una prima volta nei giorni stessi del discorso, nel 1920; significativamente torna a circolare in edizione clandestina nel1944, nei giorni della Liberazione di Roma; la componete riformista del Psiup lo ripropone nel 1946, (nella collana di “Critica sociale”); torna a in libreria nel 2002 e poi nel 2008.

In breve, si potrebbe dire, ogni volta che si è proposta la questione di rifondare un patto per lo sviluppo che rovesciasse il senso del rapporto tra governo e opposizione si metteva all’ordine del giorno la questione di un nuovo parto trasversale per lo sviluppo, Rifare l’Italia è stato un testo che ha funzionato da crocevia per la discussione.

Probabilmente è così anche questa volta, con un aspetto particolare, tuttavia: ora si tratta di definire, e non solo di riaffermare una cultura economica, politica, sociale, strategica della sinistra nel XXI secolo.

Per questo le parole del grande vecchio del Partito socialista tornato centrali per vari motivi che strutturano il piano di quel lungo discorso che Turati prepara attentamente in occasione della riapertura delle Camere.

Un primo aspetto consiste nella concezione laica della politica e del socialismo che emerge da queste pagine. La politica, dichiara Turati, è «essenzialmente una tecnica». La politica non sono gli intrighi parlamentari, le alleanze occasionali poi spesso tradite, i bei discorsi. La politica, precisa, «è, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica. Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica».

Un secondo aspetto riguarda la rifondazione del Paese che significa superamento e della dimensione burocratica del potere (soprattutto nel Mezzogiorno), ma anche assunzione di responsabilità e, dunque, la ripresa economica, la ricostruzione del mercato, una politica dei consumi, un riassetto dell’impresa, non può avvenire all’interno della precedente forma della politica.

Turati è convinto del pericolo di un «fallimento imminente» del Paese, «se non si affrettano i ripari», ed  è convinto che il movimento operaio non sia ancora in grado di assumere la guida del Paese, ma possa dare un apporto esterno significativo se la parte più illuminata della borghesia (che nell’Italia del 1920 significa: Nitti e Giolitti) dovessero imboccare con decisione la strada dello sviluppo e delle riforme, dovessero adottare quello che Turati chiama un «programma della nazione», distinguendolo da un semplice programma di governo.

Fatti gli italiani, aggiunge Turati rovesciando la famosa formula di Massimo d’Azeglio, bisogna fare l’Italia.

Se l’Italia settentrionale è stata fatta com’è con i sacrifici e l’impegno economico di decine di generazioni, i progressi della tecnica consentirebbero oggi di fare altrettanto nelle zone arretrate in tempi molto più brevi.

Per realizzare questa svolta epocale di modernizzazione del Paese è indispensabile, secondo Turati, l’intervento di promozione e coordinamento dello Stato, perché i proprietari tranne quelli dei settori industriali d’avanguardia, sono portati più alla conservazione che alla innovazione.

Quali esempi di uomini di Stato che sono stati capaci di interpretare queste esigenze, Turati cita due nomi: uno, straniero e contemporaneo, l’altro italiano, ma del secolo precedente.

Il primo è Walther Rathenau, ministro della Ricostruzione economica nella Germania di Weimar, sostenitore di un intervento regolatore dello Stato nell’economia. La sua visione e la sua proposta economica arrivano in Italia alla fine del 1919 e s’impongono nella discussione pubblica soprattutto attraverso la mediazione di Gino Luzzatto che promuove e cura l’edizione italiana del suo L’economia nuova (Laterza 1919) e dove sottolinea, la necessità di governare lo sviluppo.

“Il passato è caduto e non risorgerà mai più”. Scrive Rathenau ne L’economia nuova.

E così prosegue:

“Se esso era un paradiso, è ormai un paradiso perduto. Affliggersi dietro il passato, rimpiangere ciò che non può risorgere, non è degno di un uomo e non può essere nella maniera tedesca; il paradiso «meccanizzato» dell’economia senza freni ha avuto il suo tempo e ha avuto il suo pregio; se lo abbiamo abbandonato per forza, noi gli voltiamo ora volontariamente la schiena e ci vogliamo creare col sudore della nostra fronte un campo che sarà nostro e sarà benedetto per volontà del nostro lavoro onorato”.

Il messaggio attualissimo che il sistema economico, dato le dimensioni che aveva raggiunto, aveva bisogno di essere in qualche modo governato. È questo il principio che sta a cuore a Filippo Turati.

Accanto a Rathenau, Turati richiama la lezione di Cavour. Camillo Cavour, che nel 1847, quando le passioni unitarie erano di là da venire, scrive il saggio sulle ferrovie italiane, in cui era previsto con estrema lucidità il ruolo essenziale che il nuovo mezzo di trasporto avrebbe potuto svolgere per la modernizzazione del Paese e per la sua unificazione.

Nel 1920, conclude Turati, l’elettricità e l’industria possono rappresentare quello che il vapore e le ferrovie rappresentavano nel secolo precedente. Elettrifichiamo l’Italia, industrializziamola e favoriamo la sua crescita economica. Questa la sua conclusione che non vuol essere un elogio alla tecnica, ma un modo per mettere a terra un modo di pensare progetto politico a partire dalle cose da fare, e non dai principi astratti da «piantare in terra».

Rimane sospesa, allora, ma anche ora, la questione di trovare una risposta agli interrogativi che pone Turati. Le vicende politiche italiane immediatamente successive si risolvono nella modernizzazione realizzata dal fascismo, ma non rientrano in nessuna delle alternative da lui prospettate.

Quando quaranta anni dopo, alla fine degli anni ’50 si riapre il confronto per la modernizzazione, è ancora il laboratorio riformista (non solo nel Psi, ma anche in alcune realtà del Pci, per esempio il nucleo milanese sensibile ai temi dell’industria di cui è figura di spicco Silvio Leonardi) a proporre i nodi dell’innovazione.

Poi, come sappiamo, anche quella stagione si è ripiegata su se stessa e l’appuntamento con lo sviluppo è di nuovo mancato.

Qualcuno oggi sarà in grado di farlo riemergere e provare a farlo camminare?

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