Partiti e politici
Renzi vincerà senza Civati, ma questo partito di sole certezze fa un po’ paura
L’altro giorno, alla manifestazione del 25 aprile, un elettore del Pd che viene dal Pci mi ha avvicinato per parlarmi dell’atteggiamento delle minoranze del Pd. Mi ha detto: “Perché non provate a farli ragionare, a dirgli che da che mondo è mondo essere minoranza vuole dire discutere, criticare in modo costruttivo, va bene, ma poi alla fine significa stare dentro alle logiche di Partito, accettare le decisioni prese dagli organi del partito e dalla sua maggioranza?”. Una fedeltà alla linea che viene da lontano, da una storia lunga e dignitosa, da una cultura della politica che univa chi era dossettiano e teneva duro negli anni della Dc più destrorsa, di chi era ingraiano o migliorista quando l’egemonia all’interno del Pci stava in tutt’altre mani, di chi si considerava la vera sinistra nel Psi di Bettino Craxi. Quelle parole, in fondo, riportavano alla radice dell’essere partito, cioè dell’essere parte di un processo e di un agente politico anche quando si è minoranza, cioè “parte minore”, cosa assai diversa dall’essere opposizione.
Quelle parole, sentite e discusse brevemente all’ombra delle bandiere della Resistenza che ricordiamo come la parte meno brutta della nostra storia nazionale, mi son tornate chiaramente in testa oggi che tra appassionati di politica e commentatori è tutto un parlare dell’uscita di Pippo Civati dal gruppo parlamentare del Pd e quindi del partito. Perché questa scelta di Civati va analizzata per quel che è, e cioè come una scelta politica. È la concretizzazione della non-accettazione dell’essere minoranza? O la presa d’atto dell’impossibilità di essere minoranza in modo costruttivo dentro a questo “nuovo” partito di stretta osservanza renziana, da Renzi plasmato a propria immagine e somiglianza? La questione non è di poco conto, e va affrontata sgombrando il campo di qualche questione preliminare.
Le questioni preliminari che qui non interessano, anche se affollano le bacheche di Facebook e le timeline di Twitter, sono quelle psicologiche. “Pippo se ne va perché rosicava”. La dominanza dell’elemento psicologico sull’elemento strutturale è una malattia, forse la principale, della politica fatta e commentata dalle nostre disgraziate generazioni. Non voglio negare, naturalmente, che le questioni personali contino, pesino, a volte siano anche molto influenti. Dare a questi elementi centralità nella spiegazione dell’uscita di Civati dal Pd, tuttavia, rischia di essere molto comodo per non prendere sul serio i nodi politici che questa vicenda mostra e pone sul tavolo, una volta di più. Sono i nodi di un partito che ha attraversato un cambiamento epocale e radicale, in pochissimi anni, e questi cambiamenti riguardano gli interessi che rappresenta, le sensibilità che raccoglie, le antropologie sociali ed economiche cui dà voce. Tutto pienamente legittimo, la democrazia va così, ma occorre saperlo.
Il partito che Civati lascia è un partito vincente, in buona salute dal punto di vista del consenso, con poche incertezze, sostenuto da una solida macchina di comunicazione e da buona stampa, e con una guida chiara. Non sembra neanche parente, a guardare questi dati non strutturali, dei vari partiti di sinistra che sotto alterne guide, anche molto diverse tra di loro, ha alternato buoni risultati a sonore batoste, mancate vittorie e cocenti sconfitte. È un partito, quello di Matteo Renzi, che fa prevalere la velocità sulla lungimiranza, l’azione sulla riflessione, il rapporto disintermediato con l’elettore rispetto ai logorati e autoreferenziali rapporti con le strutture di partito, i corpi intermedi e la base. È un partito, questo Pd, che dopo aver promesso rottamazioni e cambiamenti di verso punta a vincere in Sicilia coi voti di Cuffaro e in Campania con quelli di Cosentino. È un partito che molla ormai ogni ormeggio ideale o ideologico rispetto ad ogni concetto dell’essere “sinistra”, salvo una piccola riserva indiana di vecchia rappresentanza che vedremo se e quanto resiste (o quanto sia pronta a un passo analogo a quello di Civati, che ha forse preferito giocare d’anticipo). È un partito che, in fondo, poco o nulla ha a che fare con l’idea stessa e il concetto di “partito”: un luogo in cui, pur tra tante differenze, sono idee forti e visioni di realtà precise a tenere insieme persone diverse. Nel partito carismatico, privo di dubbi e frenetico della leadership di Renzi – “uno spregiudicato con un talento esagerato”, come le definì proprio Civati – tutto questo non c’è più: c’è il moto perpetuo che fa dimenticare decenni di inazione ma anche, purtroppo, il bisogno di progettualità più lunghe dei 140 caratteri e di hashtag che garantiscono che la svolta è avvenuta.
In tutto questo, un aspetto lascia dei dubbi e mette un po’ di paura. Non riguarda solo Renzi ma anche, soprattutto, i suoi fan. Al di là della lunga schermaglia lanciata da Civati e del processo che lo ha portato a uscire solo dopo molti mesi di critiche, fa impressione vedere quanto, nella base, il dileggio e la soddisfazione per questa uscita siano la cifra riassuntiva più diffusa delle reazioni suscitate. Quasi che la critica, anche petulante, magari non condivisibile, sia diventata per tutti un problema risolto solo, finalmente, dall’espulsione dei critici-disturbatori. Le stesse persone che, magari, quando Fini, da presidente della Camera, contestava Berlusconi lo esaltavano come un paladino della democrazia, oggi sfottono Civati ed esultano perché finalmente s’è levato dalle scatole. La sua strada, peraltro, è impervia e senza certezze. Quella del Pd sembra invece non avere più dubbi: aiuta a vincere le elezioni, ma lo scopo della politica, dopo tutto, non è solo questo. O no?
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