Costume
Renzi, Di Maio e i nostri padri da rottamare
Che sia tutta una faccenda di padri inadeguati ai tempi dei social. O meglio, di genitori troppo ingombranti. Sta di fatto che Luigi Di Maio e Matteo Renzi rischiano di pagarne le conseguenze. O almeno, il primo l’ha oramai sfangata.
Al suo elettorato è bastato un imbarazzante video rilanciato sui social network nel quale, balbettante, pur leggendo un testo preconfezionato, il padre si mostrava contrito e pentito. Per Renzi si vedrà, posto che, nei confronti del suo elettorato liberal-democratico – quantomeno, la migliore approssimazione che questo Paese possa averne – si trova in un grande imbarazzo.
Insomma, imbracciare la retorica del complotto ordito da una parte della magistratura, pronta a boicottare la sua rentrée a suon di presentazioni dell’ultima fatica letteraria, pare un azzardo. Che poi lo dica chiaramente, come fece a più riprese Silvio Berlusconi.
E tanto gli giovò al figlio della Gran Milan baby boomer in termini di consenso. Tanto che allora l’Italia ci pareva essere divisa tra una maggioranza di maneggioni, o aspiranti tali, e una minoranza – numerosa per carità – di votati alla causa delle pura giustizia.
Ma lo sappiamo bene quanto questo nostro Paese sia oramai diviso sul tema. Sin dai tempi di Mani pulite, sulla cui spinta molti nuovi attori politici hanno trovato fortuna. E da lì in poi, uno stuolo di avvocati civilisti, fiscalisti, penalisti e parimenti un buon numero di magistrati, più o meno noti, hanno varcato la soglia di Montecitorio.
Ne nacque un certo populismo giustizialista, un certo gusto per le manette. Per le tante carcerazioni preventive, a fronte delle poche condanne. Di rado, comunque, esemplari, almeno misurandole al furore popolare.
E allora c’è da chiedersi quanto di popolare c’è in questa vicenda tutta Toscana, che sconfina pure in Liguria. Falsa fatturazione e bancarotta fraudolenta. A dir la verità, materia poco affascinante per le masse, nulla a che vedere con il più affascinante reato di corruzione. Che poi ha dato i natali a quell’altro reato di nuovo conio “traffico di influenze”, per provare il quale forse non basta neanche una seduta spiritica.
Dicevamo i padri un po’ pasticcioni. La mia generazione – noi quarantenni o qualcosa in più – lo sappiamo bene, perché con questi padri ci parliamo ogni giorno, quando sono ancora in vita, o li ricordiamo, quando sono trapassati.
Dagli zero ai dieci anni abbiamo visto un susseguirsi di berline, una dietro l’altra, quando andava bene, o una tv nuova dietro l’altra, per le più modeste famiglie. Poi li abbiamo visti sempre correre dietro ai fiscalisti, agli avvocati, a quelle strane presenze sempre contraddistinte da brutte cravatte e giacche sempre troppo stazzonate e fuori misura.
Poi, quando i nostri padri iniziavano a scavallare i 60 anni, li abbiamo visti sempre più indaffarati a far conti sulla carta, o con quelle oramai vetuste calcolatrici con il rotolino. Mai su qualche file excel. E gli abbiamo voluto bene. Pure quando abbiamo capito che il mondo li sopravanzava.
Poi, nella nostra età dell’impegno civile e politico, con il rumoreggiare delle inchieste giudiziarie, arresti, domiciliari e tutto il loro corollario, abbiamo iniziato a capire che non era più tempo di cialtronate. Ma loro no. Non lo hanno mai capito. E più che altro, anche superati i 70 anni, hanno continuato a mordere la vita, non volendo andare in pensione. Ed è lì che il pensiero forte della “rottamazione” ci ha dato – a noi figli, più o meno quarantenni – la voglia di mandarceli.
Ecco, immaginiamo una rottamazione – per la verità unica eredità identitaria che Matteo Renzi ha saputo trasmettere, almeno fino a ora – privata. Privatissima. Casa per casa. Affermando veementemente ai nostri genitori cialtroni che “adesso basta!”.
Adesso non è più tempo di magheggi, più o meno leciti e quasi sempre leciti. Al pari di un Gianni Perego che schiaffeggia – finalmente e tanto simbolicamente – Romolo Catenacci, urlandogli contro “Non c’è più posto per i vecchi rimbecilliti!”.
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