Partiti e politici

Referendum, Renzi cerca una strategia per non fare la fine di Cameron

28 Giugno 2016

Matteo Renzi comincia ad aver paura del referendum, ma non ha ancora un piano B. Il risultato di Brexit nel Regno Unito ha instillato nella testa del presidente del consiglio un germe che difficilmente se ne andrà prima della consultazione sulla riforma costituzionale: e se dovesse vincere il No? Renzi, e ormai lo ammette lui stesso nei colloqui riservati, è la causa e l’effetto di questo pensiero. Personalizzando così tanto la questione, infatti, ha trasformato il voto sulle riforme in un referendum su di sé e il suo governo. Naturale quindi che, tutti coloro che vorrebbero liberarsi di lui, da quelli che non l’hanno mai sopportato fino ai delusi dell’ultima ora, potrebbero sfruttare l’occasione per dargli il benservito. Il deludente risultato delle amministrative, poi, non aiuta a nutrire speranze positive: il consenso del Pd è calato, in certe zone anche molto, segno di un inizio di insofferenza del Paese nei confronti del renzismo. Andando avanti su questa china il referendum rischia di trasformarsi in una trappola mortale. Che fare, dunque?

Una possibilità potrebbe essere quella di firmare un armistizio con la minoranza Pd. Per l’esito del referendum su Brexit venerdì è stata annullata la direzione post comunali, un appuntamento che si annunciava infuocato. La minoranza, infatti, ha una bella lista da presentare al premier. “Innanzitutto, bisogna rivedere l’Italicum, con un premio alla coalizione e non alla lista. In secondo luogo, occorre mettere fine al doppio incarico e nominare una persona che si occupi del partito a tempo pieno. Poi occorre spersonalizzare al massimo il referendum, parlando solo dei contenuti e dando cittadinanza piena anche alla linea del No. Infine, bisogna finirla con la rincorsa del centro e tornare a coprire a sinistra”, osserva il deputato bersaniano Davide Zoggia. Ma non solo. “Il governo deve ricominciare a fare politiche di sinistra, tornare a rappresentare gli interessi delle fasce deboli, parlare al nostro popolo smarrito parte del quale vota Grillo. Il Pd deve tornare a essere il luogo dell’elaborazione politica e il governo quello della sua realizzazione. Ora invece l’elaborazione la fa l’esecutivo e il partito fa da cassa di risonanza”, spiega Nico Stumpo, altro esponente della minoranza.

Nel frattempo, fiutando l’aria, le correnti del Pd sono tornate in superficie come un fiume carsico: si rimuove Areadem di Dario Franceschini (c’è stata una cena la settimana scorsa), riprendono conciliaboli i giovani turchi (Orfini, Orlando & C.), si sono infittite le telefonate tra Cuperlo, Bersani e Speranza, gode di nuova “allure” dopo la vittoria a Milano la piccola corrente di Maurizio Martina, il cui nome circola per il ruolo di segretario. Insomma, nel Pd, con qualche giravolta di troppo, molti stanno scoprendo di non essere mai stati renziani. Il sogno dei più anti-Renzi, naturalmente, è che il premier perda il referendum, si dimetta e si formi un nuovo governo, benedetto da Mattarella, guidato da Pietro Grasso (più istituzionale) o dallo stesso Franceschini (più politico). Restando coi piedi per terra si può dire che il renzismo non è più quella solida falange che sembrava procedere unita fino a qualche settimana fa, ma s’iniziano a cogliere distinguo e sfumature diverse, qualche velata critica, segnali di nervosismo, per la gioia, naturalmente, della minoranza.

L’armistizio di Renzi con quest’ultima in ottica referendaria passa però per tre tappe: modifica dell’Italicum, un vice segretario non di stretta osservanza renziana che abbia la delega al partito (per fare un nuovo segretario occorrerebbe passare per congresso e primarie, ipotesi da scartare nel breve periodo), l’ingresso di nuovi esponenti non renziani nella segreteria. Organismo che deve essere convocato più spesso, come ha sollecitato Massimo D’Alema, spiegando che “quello dovrebbe essere il vero luogo del confronto e della sintesi tra posizioni diverse, e non la direzione che spesso si trasforma in una passerella di propaganda”.

Ci sono poi altre due strade, più impervie e rischiose. La prima è tentare un nuovo accordo con Forza Italia, un patto del Nazareno 2 che porti Berlusconi a sostenere il Sì o comunque a non impegnarsi nella campagna per il No. La seconda è un tacito accordo con il Movimento Cinque Stelle, che dalla vittoria del Sì trarrebbe due grandi vantaggi: Renzi resterebbe saldamente al suo posto e con lui a Palazzo Chigi i grillini hanno tutto da guadagnare, perché più il premier sta lì e si logora, più il Movimento ha l’occasione per fare ciò che sa fare al meglio, ovvero l’opposizione, senza sconti, in Parlamento. In secondo luogo, la riforma si porta dietro l’Italicum e se c’è una forza politica che la nuova legge elettorale favorisce, è proprio l’M5S che, con il premio di maggioranza alla lista, ha la reale possibilità di vincere le prossime elezioni politiche. In questo caso Renzi si dovrebbe muovere per assicurarsi un disimpegno del movimento grillino nella campagna referendaria, come tra l’altro già in parte sta avvenendo.

Quale strada scegliere? La logica suggerirebbe un accordo con la minoranza del Pd, che avrebbe anche il merito di ricompattare un partito piuttosto sfilacciato. Ma non è la logica, spesso, a guidare le scelte politiche. E al momento un Renzi che si diede al tavolo con Cuperlo, Bersani, Speranza & C. per siglare un armistizio è una possibilità lontana almeno quanto un nuovo accordo con Berlusconi. Così, forse, la strada più praticabile è proprio quella del tacito accordo con i grillini. Anche questa via, però, nasconde un rischio: che gli elettori dei Cinque Stelle, senza indicazioni precise dal vertice, al referendum vadano a votare lo stesso per il No.

Intanto la campagna referendaria, dopo il break delle amministrative, è ripresa in pieno. In tutta Italia stanno nascendo comitati per il Sì e per il No e i due fronti stanno raccogliendo le firme (500 mila per parte) che dovranno essere depositate in Cassazione entro il 15 luglio. Le firme non sono necessarie allo svolgimento della consultazione (basta la richiesta di un quinto dei deputati), ma servono a dare più forza alle campagne, a mobilitare i cittadini e a ottenere i rimborsi elettorali (500 mila euro, un euro a firma). Il Pd, però, sta usando un trucchetto: manda mail e sms ai militanti invitandoli a firmare “per indire” il referendum, che invece è già indetto. Un trabocchetto dettato probabilmente dalla paura di non raggiungere 500 mila adesioni entro il 15 luglio: eventualità non decisiva ma che equivarrebbe comunque a una figuraccia. Un altro indizio, quest’ultimo, del nervosismo che si respira al Nazareno sul referendum. Lo spettro Cameron sta lì, dietro l’angolo, e Renzi non ha ancora trovato il modo di farlo sparire. L’impressione, confermata da molti, è che il premier sia perfettamente consapevole di procedere verso la bocca del vulcano, ma non abbia ancora trovato un percorso alternativo. E forse ancora non voglia nemmeno cercarlo.

 

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