Partiti e politici

Quel 27 Marzo fu proprio una festa (poi sono arrivati Grillo, Renzi, Salvini…)

27 Marzo 2020

Dovrei dire 28 perché, tecnicamente, la festa fu la sera del 28. E io c’ero. Ero proprio lì, in quella sala sotterranea del Jolly a Corso d’Italia, qualche passo più in là la sede della Cgil. Quella sera di 26 anni fa ero lì per lavorare, ma in qualche modo festeggiavo anch’io. Intanto, il solo fatto di esserci. Che, se permettete, è un enorme privilegio. Qualche giorno fa, per condire di lettura la notte bianca quarantenatica, Paolo Condò ha preso in mano Normal Mailer e il suo libro memorabile su Alì-Foreman, la notte di Kinshasa. “Il più grande libro libro di sport mai stato scritto” ha sentenziato Paolino, tenendosi prudentemente basso. Per quei miracoli che poche volte avvengono, Mailer si sdoppiò così da diventare voce narrante di un docufilm che ha fatto epoca: “Quando eravamo re”, sull’intreccio politico-sportivo di quell’incontro e più semplicemente premio Oscar nel ’97 come miglior documentario. Feticista della materia, Giorgio Gandola ha condito il racconto per voce sola di Condò con una foto, altrettanto memorabile.

È l’istante in cui Ali ha appena sferrato il pugno definitivo e sta pensando, da autentico leader politico, se sia il caso, in quei centesimi di secondo in cui Foreman piega il suo corpaccione “come un maggiordomo sessantacinquenne” (la mia età, perfetta), se sia o meno il caso di assestargli il colpo di grazia. È netto il ragionamento, nello sguardo di Ali, come la decisione di fermarsi al pugno primordiale. Di più non avrebbe senso. Bene, tra il pubblico a bordo ring Mailer c’è e quella immagine gli restituisce uno stordimento fanciullesco, lo vedi a bocca spalancata che inghiotte tutta quella magnificenza. “Cronaca significa esserci” conclude Gandola.

Ecco, quella sera che Berlusconi vinse le sue prime elezioni e si prese l’Italia, io c’ero. Ero lì, cazzo. Che enorme privilegio. Che, debbo confessarmi, mi meritai. Sapevo tutto di lui, lo conoscevo perfettamente, ne sapevo la forza bestiale, le parti oscure e quelle pubbliche. Lo avevo pesato al grammo gli anni del Milan, lavorandoci da vicino, e quelli precedenti per un interesse personale e politico nei confronti di un club molto esclusivo come la P2, di cui il nostro poteva vantare la tessera di iscrizione n. 1816. Era il tempo delle casette rosse coi vialetti fioriti di Milano 2, che molti hanno ampiamente schifato solo perché le aveva immaginate lui, ma prova tu a vivere al Gallaratese o in altre parti di Milano ampiamente di merda, e dovrai riconoscere che il tipo era visionario. Aveva l’idea, piuttosto semplice e rivoluzionaria, di fare stare bene le persone che gli avevano dato un soldino. Incredibile in questo Paese. Poi con le televisioni il soldino non lo voleva neanche più e così sbarcavi la serata ignorando il resto della famiglia. Per molti, un obiettivo sostenibile. Anche qui. Tre autorevoli ricercatori universitari, qualche mese fa hanno messo in piedi uno studio, diciamo così, antropologico-politico, per cui legare la visione dei programmi Fininvest (Mediaset venne dopo) di quel tempo al tuo sviluppo intellettuale successivo, concludendo che tutti quelli che si erano rimpinzati di quella roba lì erano diventati dei cittadini di merda. Una selezione della specie, per via catodica, a cui evidentemente Drive-in aveva dato il suo onesto contributo. Negli anni caldi del suo sbarco in politica, il tema televisioni è stato «IL» tema. E già nella fase di preparazione, quando non dovette neppure convincere troppo le sue star dell’epoca – Mike, Sandrina&Raimondo, le presentatrici, e tanti altri – a metterci in diretta il faccione e raccontare alla gggente del posto cosa aveva fatto “il nostro presidente”. Aveva fatto evidentemente del bene, o almeno questa fu la percezione degli italiani, se quella notte del 20 marzo del ’94 Forza Italia partito si mangiò l’Italia paese.

Eppure il Cav. è stato un prevedibile. Tutti i predestinati sono dei prevedibili. A patto che, se sei appena un attimo sveglio, ne intercetti le potenzialità. La mia sensazione era che qualunque cosa avesse fatto, a qualunque gioco avesse giocato, Silvio B. avrebbe vinto. Una paura che applicata al calcio si trasformò rapidamente in una gloriosa apoteosi cacciavite, che durò gli anni belli che durò, fino a cucirsi sul lembo della maglietta rossonera, alla sua maniera un po’ sborona, quel celebrativo e definitivo “Il club più titolato al mondo” con cui faceva cucù al Real Madrid, in quel momento lui il più titolato e da quel momento “l’ex club più titolato al mondo”.
Dicevamo un predestinato. Bastava seguirlo nelle sue Convention in giro per l’Italia durante la campagna elettorale per capire come sarebbe finita, bastava guardare l’impianto intellettuale, la misura tra contenuti, strumenti, parole, musica, per capire che fino a quel momento nessuno aveva usato/osato un mix così letale. A partire dall’inno “nazionale”: «E Forza Italia che siamo tantissimi…” Sì certo, potevi anche non cantarlo, eri lì per lavorare, per raccontare ai tuoi quattro lettori, ma insomma non farsi prendere non era così scontato.

Ecco, farsi prendere. Sono stati tre, i veri, grandi, raccontatori di Silvio Berlusconi, nella fase di preparazione al partito, giorni e giorni a battere la strada, quel viale Isonzo dove faceva i provini televisivi ai candidati, e poi casa sua dove i tre gaglioffi si presentavano spesso senza essere né invitati né annunciati. Due dei tre erano grandi cronisti, Vittorio Testa di Repubblica e Pino Corrias della Stampa. Il terzo scrive qui. Si andava al “villone”, come lo chiamava Pinuccio e drinnnn. Un maggiordomo si presentava con aria interrogativa. “Volevamo vedere un attimo il presidente”. Aspettate qui. Passava qualche minuto. “Prego da questa parte. Il Dottore arriverà tra pochi minuti”. Piccola nota: in azienda, nel villone, tutti i suoi uomini lo hanno sempre chiamato il Dottore, mai il presidente. Sin da Marinella Brambilla, autentica depositaria del vero pensiero di Silvio Berlusconiana. E persona di rara serietà. Il Dottore arrivava sempre e sempre, ovviamente, con il migliore dei suoi sorrisi. Cominciava e non finiva più. Una volta e ancora oggi non ne ricordo il motivo, a villa San Martino ci presentammo solo Vittorio Testa e lo scrivente. Pinuccio era da qualche altra parte. Entrammo, ci posizionammo nel grande salone, poi lui arrivò. Solite chiacchiere, molte chicche che poi avremmo usato, ma alla fine della chiacchiera un momento diverso. Fece precedere il congedo da una frase: “Aspettate un attimo”. Si allontanò. Passarono alcuni minuti. Tornò con nella mani due pacchetti lunghi una ventina di centimetri, carta oro, un bel fiocco, evidentemente già pronti per certe occasioni. Disse: «So di darvi un grande impegno in questo periodo, siete costretti a seguirmi, a tralasciare anche le vostre famiglie, ecc. ecc. Insomma, questa è una piccola testimonianza della mia gratitudine». Ci mise in mano i due pacchetti, una stretta di mano e arrivederci.
Restammo di sasso. Usciti, mi rivolsi a Vittorio: “Ti è chiaro, no, che ci ha inculato?” Salimmo in macchina e furiosamente cominciammo a scartare. Era un astuccio rosso di velluto. Eccolo là. Vittorio lo aprì per primo: era uno Zenith, cassa oro, sul fondello incisa la sua firma “Silvio Berlusconi”. Una tamarrata niente male. Fatto sta che la cosa ci ammutolii. Forse scambiammo qualche opinone sul da farsi, tra cui tornare immediatamente indietro e riconsegnare il manufatto nelle mani del maggiordomo. Considerammo che sarebbe stato più volgare del regalo. (Ebbi comunque da subito, per la mia conoscenza degli orologi, la consapevolezza che non valesse un cazzo, ma non era qui la questione).

Nei giorni successivi, Vittorio fu molto più presente di me e congegnò la sua risposta. Acquistò un Raketa, l’orologio russo, lo consegno a Niccolò Querci, il segretario particolare di B,, con un bigliettino: «Saluti comunisti». Magnifico. Io restai lì. E sono ancora lì. Nel senso che per lunghi ventisei anni, quell’orologio è rimasto lì, al fondo del cassettone della mia casa milanese. Mai indossato. Mai uscito dall’astuccio di velluto rosso. Spero sia ancora lì. Perché adesso, dopo aver speso una vita professionale dignitosa, avrei diritto al reato prescritto, indossandolo anche con un certo rimpianto. O no?
Sugli anni berlusconiani è quasi inutile tornarci. Sapete perfettamente che sono stati memorabili. Nel bene e nel male. Soprattutto sono stati memorabili perché hanno cavato da ogni cittadino la radice dei sentimenti, che fossero indignazione o entusiasmo, garantismo o giustizialismo, ci hanno allontanato da quella terribile condizione atarassica che è la tomba della politica. B. ci ha diviso nel profondo, ma vivaddio, quanti ne sono stati capaci? Solo per questo, il suo lungo viaggio dentro questo Paese è stato un momento politicamente formativo. Poi sono arrivati Grillo, Renzi, e Salvini.

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