Partiti e politici
Quando il potente utilizza le querele temerarie per colpire la libertà di stampa
Dove finisce il diritto di tutelare la propria immagine da offese e falsità e dove invece inizia l’utilizzo delle aule di tribunale per mettere il bavaglio a giornalisti che svolgono il loro compito, ovvero quello di raccontare dei fatti o di porre delle legittime domande? È quello che ormai ci si chiede ogni volta che un potente pretende per vie legali di essere risarcito da un giornale, specie se quel potente – come nel caso del senatore Matteo Renzi – ha la cosiddetta “querela facile”.
Negli ultimi due anni, ovvero da quando è partita la sua campagna “colpo su colpo”, il leader di Italia Viva ha intentato decine di cause civili contro testate come L’Espresso, Il Fatto Quotidiano (circa una ventina, è il suo bersaglio preferito), La Verità, Panorama; contro singoli giornalisti come Luca Telese, Marco Travaglio, Nicola Porro; contro personaggi che in qualche modo lo avevano criticato come Michela Murgia, Piero Pelù e persino lo chef Gianfranco Vissani. Le più fresche, quelle annunciate nelle ultime ore, saranno recapitate ai quotidiani La Stampa e TPI per degli articoli in cui si racconta della sua ultima trasferta, quella nel lussuoso hotel Burj Al Arab Jumeirah di Dubai in compagnia dell’imprenditore Marco Carrai, l’amico di una vita. Non è ancora chiaro (in questo caso, come in altri) quale sia la diffamazione o la falsità riportata nei due scritti, dato che lo stesso interessato ha confermato il suo viaggio negli Emirati Arabi affermando di aver avuto una “buona ragione” per volare fin laggiù e di essersi pagato tutto da solo, cosa su cui nessuno aveva avanzato dubbi.
In verità, la pratica di imbavagliare giornali, giornalisti e chiunque avanzi critiche a colpi di azioni legali non è neanche così originale; Massimo D’Alema, potente d’altri tempi e anti-Renzi per eccellenza, era un altro che ricorreva spesso alla letterina dell’avvocato o quantomeno minacciava di farlo: è rimasta negli annali della politica una richiesta di risarcimento di ben tre miliardi di vecchie lire (poi ritirata) contro il vignettista Giorgio Forattini, che lo disegnò intento a sbianchettare il Dossier Mitrochin… quanti ricordi.
C’è poi il fondato sospetto che molte richieste di danaro (spesso oggettivamente fuori misura) inviate dal potente di turno alle testate giornalistiche, siano in realtà una sorta di “acquisto di quote virtuali”, un modo per assicurarsi un trattamento di favore da parte del giornale: “se da oggi parli bene di me, ritiro tutto…”. Si tenga conto che – escludendo i grandi gruppi editoriali – una media o piccola testata non è spesso nelle condizioni di pagare decine di migliaia di euro di risarcimento, figuriamoci le cifre esorbitanti che vengono richieste da alcuni uomini politici.
Come tutelare la libertà di stampa da tutto questo? In Parlamento è arenata da circa un anno una proposta di legge a firma Primo Di Nicola contro gli abusi delle liti temerarie, ovvero le azioni legali su basi fasulle o infondate. Il testo, un solo articolo, modifica il Codice di Procedura Civile e stabilisce che nei casi di diffamazione commessa con il mezzo della stampa “in cui risulta la mala fede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per risarcimento del danno”, il giudice, con la sentenza che rigetta la domanda, può condannare chi denuncia a pagare una somma “non inferiore” a un quarto della somma oggetto della domanda risarcitoria, oltre che alle spese legali. Insomma, chiedere un risarcimento di 100mila euro a un giornale con il solo scopo di intimorirlo, potrebbe costare 25mila euro oltre il pagamento delle spese legali sostenute e di conseguenza potrebbe non essere più così conveniente.
«La legge – ha spiegato lo stesso Di Nicola a “Le Mattine di Radio Capital” – era pronta per essere votata in aula il 26 dicembre di un anno fa con un accordo di tutti i partiti dell’allora maggioranza: da quel giorno è stata scalendarizzata perché ci sono delle forze politiche che pur avendola sottoscritta hanno fatto di tutto per ostacolarla, toglierla dal calendario e farla finire su un binario morto». Chissà di quali forze politiche parlava. Sulla vicenda è intervenuto anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, «quando qualcuno contesta in una sede giudiziale quella che un giornalista ritiene sia una verità, se poi la notizia si rivela fondata non può finire con la semplice condanna alle spese, occorre un risarcimento per chi temerariamente è stato tratto in giudizio», ha detto all’AdnKronos.
Difendersi da chi utilizza la penna per diffamare è un diritto di tutti i cittadini, utilizzare un diritto per strappare penne da mani libere somiglia più a un abuso di potere. E chissà se le tante azioni legali temerarie depositate dai politici nelle aule di tribunale non possano diventare uno stimolo per riequilibrare il difficile rapporto tra il potere, i suoi protagonisti e chi ha il compito di controllarli, non certo quello di celebrarne le gesta. Sarebbe un cambiamento importante, quasi rinascimentale.
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