Partiti e politici
Quando c’era lui. Il Pd di Bersani (e quello di Renzi)
Renzi ha davvero portato il Pd in acque limacciose, come sostiene da tempo l’ex-segretario del partito Pierluigi Bersani? L’elettorato dem ha realmente cambiato, in peggio, i suoi connotati? Belle domande, alle quali si può dare una risposta andando a verificare quanto sia cambiato il Pd da quando c’era lui, a capo del partito fino ad oggi, con Renzi.
Il profilo degli elettori del Partito Democratico, quattro anni orsono, alla vigilia delle scorse elezioni politiche, si caratterizzava per due elementi che lo differenziavano nettamente dalle altre forze politiche: era un partito di anziani-pensionati (una quota pari al 35% dei suoi elettori) e di cittadini con un basso livello di istruzione (il 45% del suo elettorato aveva al massimo la scuola dell’obbligo).
Dal momento che questi due elementi erano in larga parte sovrapposti, è facile intuire quale fosse la chiara impronta del votante Pd, la cui conformazione non corrispondeva certo alle sembianze di un partito scelto da ceti più dinamici ed attivi. Certo, non era tutto qui l’elettorato. C’erano anche molti impiegati, soprattutto nel settore pubblico, ed una importante quota di laureati.
(Per inciso, il diretto benché inaspettato rivale, il Movimento 5 stelle, aveva un bacino di riferimento diametralmente opposto: giovane, alti titoli di studio, studenti, operai e autonomi. Una sorta di partito del futuro, si potrebbe dire, una forza politica che aveva potenzialmente nel suo elettorato le componenti della classica dinamicità sociale.)
Dal punto di vista della collocazione politica, il Pd aveva dentro di sé un’anima profondamente legata al centro-sinistra (65%), con frange significative che si dichiaravano di sinistra (25%) e una piccola quota di centro (7-8%). E c’era una profonda delusione, subito dopo la mancata vittoria di Bersani, per un partito che in quel momento valeva poco più del 25% dei voti validi. L’innovazione, il cambiamento che chiedeva a gran voce il popolo dei democratici aveva un nome solo: Matteo Renzi. Durante l’ultima settimana prima del voto, e ancor più la settimana successiva, oltre il 90% dei freschi votanti Pd dichiarava che, in caso di nuove elezioni, il candidato del centro-sinistra avrebbe dovuto essere lui, l’allora sindaco di Firenze.
Oggi, a distanza di quattro anni, cosa è cambiato? Qualcosa, non tantissimo, per la verità. Il Pd guidato da Renzi è ancora un partito di anziani e pensionati, che rappresentano ancora una fetta molto alta dell’elettorato dem, ma si sono aggiunte quote significative di giovani, soprattutto 18-30enni, e di molti altri laureati, che l’ha fatto diventare il partito per eccellenza di coloro che hanno un livello di scolarizzazione alto o molto alto (quasi il 40% tra loro vota infatti Pd).
Anche l’autocollocazione non ha subito grandi mutamenti: l’ala di sinistra è un pochino scesa (al 20%), mentre è lievemente salita quella centrista (oggi al 10%), ed è rimasta ancora nettamente egemone quella di centro-sinistra (66%). L’apprezzamento per Renzi è oggi molto maggiore di quanto non fosse quello per il Bersani di allora, ed una frangia molto minoritaria vorrebbe un differente candidato sia come segretario che come candidato premier per il centro-sinistra.
Insomma: il popolo dem è fedele, a volte un po’ scontento o un po’ infelice, ma resta all’interno della mainstream del partito. E non è mutato in maniera significativa. Un negativo effetto-Renzi non pare esserci stato. L’unica cosa che è cambiata davvero è la quota di italiani che dichiara di votare Pd. Con Bersani, si stava sul 25-26%. Con Renzi, sul 30-31%. Tutto qui.
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