Partiti e politici

Punto di Paolo Pagliaro: viaggio al termine della post verità

30 Luglio 2017

“Punto. Fermiamo il declino dell’informazione” è conciso, esaustivo, preciso, come gli editoriali a cui Paolo Pagliaro ha abituato il pubblico di “Otto e mezzo”, condotto da Lilli Gruber, sin dal 2008. Ricco di dati, di riferimenti bibliografici e soprattutto di spunti di riflessione, lo snello saggio (edito da Il Mulino) del direttore dell’agenzia giornalistica 9Colonne è una sorta di discesa negli inferi nell’era del citizen journalism e ritorno, condotta con dovizia di particolari attraverso tredici capitoli quanto mai attuali.

A Pagliaro mi legano un’amicizia e una riconoscenza ormai ventennale, nate ai tempi in cui, giovanissimo, iniziavo a lavorare in quell’agenzia di stampa all’avanguardia di cui è stato fondatore, tra le prime a sfruttare le nuove potenzialità offerte da Internet senza mai tradire i dettami del giornalismo classico e del suo codice deontologico. Come spesso avviene, ambizione giovanile mi ha spinto a voler scoprire altro, ma oggi come allora le fondamenta costruite in quegli anni a 9Colonne – che Pagliaro ha inculcato in me e in tanti altri giovani cresciuti alla sua scuola – sono punti fermi del mio approccio professionale, sia che si tratti di comunicazione visiva sia che si tratti di informazione giornalistica. Difficile, ora, non ritrovare nelle 112 pagine in cui si dipana “Punto” l’eco di quegli anni.

Alla premessa, il compito di tracciare lo scenario entro cui l’informazione e la comunicazione si muovono oggi. L’autore sceglie di partire dall’assassinio di Jo Cox, la deputata laburista uccisa a una settimana dal referendum sulla Brexit, a cui, non a caso, è stata intitolata la “Commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio”, istituita il 10 maggio 2016 e presieduta dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini.

La genesi dell’omicidio della Cox, classificato come episodio di terrorismo, ha a che fare, scrive Pagliaro “con l’atmosfera innescata in Gran Bretagna da una comunicazione politica basata sul malcontento, sulle paure e sulla rabbia degli elettori”. Un’atmosfera, si spiega, che ha trovato nella misinformation di che alimentarsi, nella post-truth lo spirito del suo tempo, nell’eccesso di informazioni “il fastidioso rumore di fondo” che la impregna.

Elettori sempre più in balìa di informazioni e sempre peggio informati, tra cui, a stare ai dati Ocse analizzati da Tullio De Mauro, più del 50% degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (come la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, le migrazioni, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare.

In Italia, a cavalcare il “declino della verità” come strumento di consenso è stato soprattutto Beppe Grillo, leader del M5S che, come ricorda il giornalista, il 26 novembre del 2016 invitò gli italiani a votare con la pancia e non con il cervello. Non è un caso che sin dagli arbori il partito della Casaleggio Associati abbia aumentato i suoi voti indirizzando la rabbia delle fasce più disagiate sui big data a sua disposizione, facendo attenzione a rifuggire da ogni tipo di collocazione politica. Questa la tesi di Giuliano da Empoli (ne “La rabbia e l’algoritmo”, edizioni Marsilio), che anche nel testo di Pagliaro emerge in diversi passaggi.

Ne esce un panorama deprimente, all’interno del quale il direttore di 9Colonne non fa sconti alla sua categoria professionale, complice di un sistema dove “contano più le emozioni che i fatti. Più le suggestioni che i pensieri. Più lo storytelling che le storie. Più la propaganda che l’informazione. E dunque più le bugie che il racconto veritiero dei fatti”, affaccendata a catturare a tutti i costi l’attenzione del lettore a scapito del fact checking, quella verifica delle fonti da sempre dovere imprescindibile del giornalista.

All’autore il merito di non additare una fantomatica e quasi metafisica rete come unico e univoco artefice della nascita delle fake news, malgrado il complesso di inferiorità patito dai media tradizionali facili a sovra-dimensionarne potere e invadenza, ma di osservare il fenomeno da cronista attento e scevro da pregiudizi. Così, se da una parte riconosce che anche – e soprattutto – a Internet si può attribuire la capacità di attuare quel “narcisistico torpore” che Marshall McLuhan conferiva a ogni nuova tecnologia, dall’altra giudica come mandanti in pectore la cultura politica e i suoi – sedicenti – cani da guardia.

Pagliaro, come altri, individua nei nuovi populismi, dal M5S alla Lega di Salvini, dal berlusconismo al renzismo, i principali vettori dell’utilizzo delle fake news come arma di lotta politica. Molti gli esempi elencati nelle pagine del libro, dalle tante bufale sui migranti a quelle sull’economia fino a quelle – gettonatissime – pseudo-scientifiche. La politica utilizza la post-verità per screditare l’avversario, per confermare le sue tesi su grandi temi e per distogliere l’attenzione dalle sue mancanze.

È nella manipolazione delle parole e nel mutamento lessicale che si sono annidati i virus che stano distruggendo l’informazione. “Si è passati da una lingua colta, forte ed esclusiva a una lingua popolaresca debole e inclusiva”, scrive. Quanta distanza, insomma – verrebbe da dire – dallo zeitgeist di fine anni Sessanta, che faceva scrivere a Dario Fo la commedia “L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo è lui il padrone!”. A questo si aggiunge, amplificandosi a dismisura, l’atteggiamento nuovo dei media che, colonizzati dal citizen journalist, hanno smesso di mediare: il fatto diventa notizia senza che il giornalista valuti e filtri, venendo meno a quel concetto di “newsworthiness” che è base del giornalismo.

Pagliaro, tuttavia, indica la strada per salvare la sua professione e insieme la capacità critica del lettore e – di conseguenza – la democrazia. Nel capitolo finale, intitolato con un bolscevico “Che fare?” (impossibile non avvertire l’eco leninista che rintracciava nell’avanguardia più illuminata il compito di condurre la rivoluzione e con essa la nascita di una coscienza di classe), accanto all’analisi di una serie di proposte lanciate negli ultimi tempi per arginare le fake news a livello governativo, richiama i professionisti dell’informazione ai loro doveri di base: il controllo dei fatti e l’onestà nel riferirli.

“E se alla fine le contromisure non saranno sufficienti a rompere l’assedio dello sciame, se preverranno bufale, fake news, misinformation e analoghe calamità prodotte dal pensiero debole e incentivate dalla tecnologia, se tutto questo rischierà di sommergerci, ci si potrà pur sempre difendere – se facciamo i giornalisti – lavorando con più scrupolo, ritrovando un po’ di coraggio e di orgoglio professionale”.

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