Partiti e politici
Prof, si rassegni: le associazioni sono finite
Sul Corsera del 2 Dicembre, il professor De Rita tenta una estrema difesa dei cosidetti “corpi intermedi”, il nutrito mondo delle associazioni d’impresa che accarezzò con paterna cura durante la sua presidenza al Cnel, l’ultima che diede un vago significato a quell’ente. In sintesi, la tesi residuale sarebbe che, accettati i fallimenti e un prestigio delle associazioni oramai al lumicino, varrebbe comunque la pena per il premier “ascoltare chi sta sul campo”, se non altro per evitare il degrado della percezione della realtà che assale chi sta nella stanza dei bottoni.
Vediamo perché, pur in ottima fede, sbaglia.
Cosa distingue una associazione di imprese da una società di servizi privata? Solo la dimensione politica: una associazione eroga più o meno gli stessi servizi che si possono trovare con maggiore competenza in società private ma firma con i sindacati in modo esclusivo i contratti collettivi nazionali di lavoro e dovrebbe intermediare gli interessi dei propri associati con governo e istituzioni. Le associazioni godono cioè di una posizione di monopolio della rappresentanza che si traduce anche in una posizione sui servizi spesso protetta dal mercato: dalla formazione alla previdenza integrativa, esse, grazie alla “bilateralità”, gestiscono cospicui fondi i cui proventi vieppiù garantiscono il perpetuarsi delle strutture burocratiche ben oltre quanto sarebbe sostenibile con le sole quote associative. Quanto sia inefficiente per gli associati e per il sistema delle imprese questo meccanismo è ben rappresentato dallo scarsissimo rilievo qualitativo della formazione, per fare un esempio, nonché dalle non infrequenti attenzioni che la magistratura ha rivolto al sistema della sua erogazione.
Limitiamoci però alla politica, andando con la mente al 1992: l’inizio di Tangentopoli e il conseguente azzeramento di gran parte del gruppo dirigente politico della Prima Repubblica e la scomparsa dei partiti leninisticamente organizzati chiese alle associazioni una sostanziale funzione di supplenza nel sistema di selezione del gruppo dirigente del Paese. Il nuovismo berlusconiano (a destra) o la attenzione alla “cosidetta società civile” (a sinistra) alla fin fine questo significavano, il cooptare all’interno della politica i quadri dirigenti delle associazioni nel tentativo di legittimare il trasformismo di vecchi e nuovi partiti. Improvvisamente baciati dalla sorte nel proprio ego, i presidenti nazionali e locali delle associazioni, i loro dirigenti e le giovani leve si trovarono nel Grande Giro quasi senza sapere perché e certamente senza sapere come e cosa fare.
E’ un male che vi sia transito tra l’uno e l’altro modo? La storia direbbe probabilmente sì, e in effetti nella Prima Repubblica chi rivestiva incarichi sindacali non poteva assumere incarichi all’interno dei partiti e il passaggio dall’uno all’altro rappresentava un sostanziale pensionamento, un premio alla carriera e mai una promozione. La transumanza della seconda Repubblica ha invece accentuato il Teorema delle Tre “C” che spiega il ruolo storico delle associazioni, tutte quante, grandi e piccole, sconosciute o famose: Corporativismo, Collateralismo, Consociativismo.
Grazie alle Tre C il governo in carica ha sempre goduto di un sostanziale silenzio delle associazioni sulle grandi questioni del Paese, essendo esse dedite nella loro struttura imprenditoriale a costruire il futuro dei propri presidenti e nella struttura burocratica ad ingrandire gli spazi della bilateralità che garantivano il permanere di burocrazie inutili e pachidermiche. Vi siete mai chiesti perché siamo arrivati alla crisi del debito del 2008 nel sostanziale silenzio di chi “stava sul campo”? Perché il collateralismo e il consociativismo avevano completamente narcotizzato il ruolo dei corpi intermedi che De Rita invece vedeva come corpi “indipendenti” dalla politica, corpi agganciati al “centro sociale”, che avrebbero dovuto rappresentare il baricentro del bipolarismo italiano: per conquistarne i favori, i partiti avrebbero dovuto applicare politiche virtuose in cambio delle quali i corpi intermedi in una società “densa” avrebbero garantito cospicuo consenso.
Non andò per nulla così: la assoluta immaturità dei gruppi dirigenti associativi fu facilissima preda dei governi e non una parola si alzò forte e autonoma nella interminabile stagione delle riunioni di quaranta e più associazioni nella tristissima Sala Verde di Palazzo Chigi.
Non fosse stato così, non fossero fallite nella loro specifica funzione “politica”, forse oggi tutti noi non staremmo nella melma nella quale sprofondiamo e forse, dico forse, le stesse associazioni godrebbero di quel prestigio invece perso con disonore sul campo di battaglia.
Per questi motivi l’appello rassegnato ma non arreso del cantore del “Piccolo è bello” è bene resti inascoltato, la società civile abbisogna di rivitalizzazione quanto le istituzioni ma non basterà una legge elettorale per riformarla: serve uno spirito diverso, impavido e indipendente, una applicazione intellettuale, un rigore verso se stessi che ai quadri di associazioni ormai in limine mortis non faccia perdere il senso profondo della realtà, degli interessi dei propri associati, del futuro del Paese. Alle associazioni, appunto, ancor prima che al Premier.
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