Partiti e politici

Pro e contro della scissione del Partito Democratico

14 Dicembre 2014

Si scinde o non si scinde? Pippo Civati lascia? E davvero Bersani e Cuperlo potrebbero abbandonare un partito in cui, nelle sue varie incarnazioni, hanno militato per tutta la vita? Mentre il mondo è alle prese con i problemi reali, in tanti seguiamo con attenzione spropositata le vicissitudini interne al Partito Democratico e le conseguenze della presa di potere di Matteo Renzi, che ha cambiato – secondo alcuni addirittura geneticamente – il Pd facendone qualcosa di sempre più simile a un “partito acchiappatutto” dalla identità di sinistra annacquata (decidere se questo sia un bene o un male sta alle singole sensibilità).

Chissà se davvero si arriverà a una scissione, che lasci il marchio Pd nelle mani della new wave renziana mentre altri si occuperanno di costruire qualcosa di nuovo, di “sinistra-sinistra”. Non sarebbe poi un avvenimento storico, visto che la sinistra italiana è la massima esperta mondiale in scissioni, che si moltiplicano all’infinito fino ad arrivare a partiti unicellulari che vivono solo nella loro autoreferenzialità. 

Conviene al Pd dividersi, per lasciare libertà assoluta a Renzi di andare a prendere i voti alla sua destra mentre altri si danno da fare per occupare uno spazio elettorale di sinistra che al momento è quasi libero? Per certi versi sì, ma questo sarebbe il fallimento di un modello “a vocazione maggioritaria” che ha nelle primarie (a livello nazionale, visto che a livello locale sono diventate il festival del clientelismo) lo strumento migliore per dirimere ogni controversia.

Perché scindere il Pd se esistono le primarie? Il modello a cui pensava Veltroni  e che Matteo Renzi sta provando a concretizzare è quello di un partito contenitore, che vada a cercare i voti negli strati più diversi della popolazione. Un “partito della nazione” post-ideologico in grado di intercettare voti in ogni dove. Evidentemente anche la classe dirigente di un partito del genere non può che essere molto variegata al suo interno, passando da posizioni di sinistra “vera e propria”, fino a posizioni di stampo liberale e liberista che giusto per un pelo possono avere cittadinanza nel Partito Democratico.

Un partito contenitore non è necessariamente un male, non è necessariamente un “comitato elettorale privo di contenuti”. Non se ci si mette d’accordo su una cosa fondamentale, e cioè che un partito di questo tipo si basa sulle primarie: ognuno può portare avanti le proprie istanze e i propri valori, nel momento in cui si vota per le primarie la corrente che ne esce vincitrice ha però il diritto di imprimere la direzione che meglio crede. Direzione alla quale tutti i dirigenti sconfitti si devono allineare per garantire l’efficacia dell’azione del partito fino alle prossime primarie. Spetterà di nuovo agli elettori decidere quale corrente del Pd premiare, se una più di sinistra o una più liberista.

È una sorta di “democrazia su due livelli”: prima ci si confronta e si vota all’interno del partito che rappresenta l’intero mondo del centrosinistra, una volta deciso qual è la corrente più adatta a competere per il governo, si va allo scontro con il centrodestra, che nel frattempo, idealmente, ha compiuto un percorso simile. Un modello di questo tipo, ovviamente, ricorda molto da vicino il Partito Democratico americano, in cui convivono posizioni estremamente diverse tra loro senza che mai nessuno si sogni di invocare la scissione, ed è praticabile in un sistema bipartitico che in Italia non sembra trovare così tanti sostenitori.

Se l’obiettivo di Renzi è costruire un Partito Democratico del genere allora la scissione del Pd sarebbe una sconfitta, perché il Pd si connoterebbe come il partito di centrosinistra (senza trattino) e avrebbe una linea politico-economica chiara, che non potrebbe cambiare alle prossime primarie dal momento che la sua componente più di sinistra ha ormai fatto le valigie. 

Allo stesso tempo, e vista la propensione della maggior parte dell’elettorato a voler votare per un partito da cui ci si senta davvero rappresentati, la scissione del Pd ha non pochi vantaggi: chiarisce il quadro politico e riempie tutti gli spazi elettorali alla sinistra dell’emisfero politico. Da una parte il Pd di Renzi e dei renziani, che si occupa di superare i “vecchi” ideali della sinistra e va a caccia senza troppi problemi del voto anche di chi in passato votava a destra. Dall’altro lato un partito che occupa lo spazio politico che oggi vede protagonista solo ed esclusivamente il sindacato, unendo la minoranza Pd con Sel e, chissà, qualche altro partito della galassia della sinistra radicale (una scissione propedeutica a nuove fusioni, i paradossi non hanno mai fine).

Quello che dovrebbe nascere, però, non è un nuovo partito a sinistra, ma il partito della sinistra, che faccia piazza pulita della miriade di movimenti senza nessun senso (e spesso senza nessun elettore) riunendosi interamente in un partito vero e proprio, non un cartello elettorale dal flop garantito in salsa Rivoluzione Civile o Lista Tsipras.

A questo punto, il Pd e il partito di sinistra sarebbero alleati naturali. Il mondo della sinistra, in effetti, ne trarrebbe giovamento e tutto sarebbe più chiaro: chi si sente di sinistra moderata vota Partito Democratico, chi si sente di sinistra “vera” vota il partito nato a sinistra del Pd. Basta con correnti, spaccature, scissioni, litigi, divisioni: due partiti possono bastare per coprire l’arco della sinistra italiana. Due partiti alleati che, in caso di vittoria, saranno al governo insieme. Sarà poi il successo elettorale di uno o dell’altro a decidere del peso politico e nel governo.

E quindi, se la scissione non si farà, per favore, il Pd si metta l’animo in pace e smetta di litigare e minacciare: nel 2017 ci sarà il nuovo congresso e la minoranza potrebbe anche tornare maggioranza. Se invece scissione dev’essere, allora che sia l’occasione giusta per semplificare e per fare chiarezza in un panorama politico, quello della sinistra italiana, che assomiglia più che altro a una gabbia di matti.

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