Partiti e politici
Primarie sì, primarie no?
Che le primarie non fossero sempre e solo una grande “festa di democrazia”, come si sentiva ripetere ogni giorno dopo con retorica trionfalistica un po’ stantia, era purtroppo chiaro: e non serve che mi metta a elencare gli episodi assai poco edificanti che si sono susseguiti nel tempo fino ad arrivare al brutto caso ligure che tocca il Partito democratico.
Eppure non mi piace sentir dire, come sta accadendo in questi giorni, che le primarie andrebbero rese meno aperte per poter tornare ad avere un senso. Le primarie, fin qui, sono state usate per scopi diversi, ma messe tutte sullo stesso piano proprio dalla retorica della “festa della democrazia” cui accennavo prima. Però tutte uguali non sono, non solo per i ruoli per cui sono indette; e certo ci sono alcune riflessioni da fare.
Che il nocciolo della questione risieda in larga misura nella forma partito è stato scritto benissimo da Marco Plutino:
“Bisognerebbe interrogarsi, cioè, sul ruolo di uno Statuto, degli iscritti, degli elettori, delle commissioni di garanzia, delle peculiarità della partecipazione degli stranieri (che scontano anche nella migliore delle ipotesi forme di socializzazione politica diverse), del rapporto tra base e leadership e gruppi dirigenti, della comunicazione, delle strutture di studio ed elaborazione interne ed esterne al partito”.
In questo processo occorrerà riflettere bene su un aspetto: come viene vissuta l’appartenenza nella società di oggi? Che valore viene dato alla famosa “tessera”? Sono segretaria di circolo del Pd da più di un anno: ci sono iscritti che non ho mai visto di persona, ma che rinnovano la tessera ogni anno perché sentono un sincero vincolo di appartenenza, e simpatizzanti che non mancano una riunione e organizzano attività e discussioni, ma l’idea di appartenenza non la amano così come non amano le tessere, e dunque restano simpatizzanti. Sarà un loro capriccio? O non sarà piuttosto, in qualche modo, un segno dei tempi che cambiano? Una tendenza a cui dare una risposta concreta, senza ripiegare sulla binarietà del “dentro o fuori”?
Non so se questa risposta concreta sia quella delle primarie sempre e comunque. Forse no. Certo, però, per avere un senso le primarie aperte devono rispondere ad alcuni criteri di base.
Hanno senso se non sono un modo per deresponsabilizzare il partito.
Hanno senso se non sono un modo, per il partito, di far passare per “democratiche” decisioni in realtà già prese.
Hanno senso se sono vere, se c’è gara, se sono in campo delle visioni – e non, come sembra sia successo in Liguria, poteri incrostati e “papi stranieri”.
Hanno senso se tutti i candidati rispettano le regole, se non si lasciano invischiare in interessi così particolari da mobilitare i soliti noti cammellatori.
Hanno senso se il partito una classe dirigente forte ce l’ha, e lascia ai suoi elettori – tutti, perché saranno loro a votarlo, poi – la possibilità di scegliere il suo indirizzo.
Sinceramente: quante primarie avete vissuto in cui tutti questi requisiti fossero rispettati?
Prima di ripensare allo strumento, ripensiamo al merito della questione. E il merito della questione siamo noi: che partito vogliamo diventare, da grandi?
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