Partiti e politici
Ponte Morandi: è il “libero mercato”
Genova è il risultato di 25 anni di dominio incontrastato del “Meno Stato, più mercato”, avallata da una “sinistra” che è passata dalla rappresentanza politica dei lavoratori a quella dei Benetton e dall’icona di Che Guevara a quella di Marchionne. Un trend che non è – come qualcuno ci racconta – l’effetto di un capitalismo arretrato ‘all’italiana’, bensì un fenomeno internazionale. La rotta può essere invertita solo partendo da ciò che si muove nella società e in particolare nel mondo del lavoro, in Italia e come minimo in Europa. E anche la prospettiva di una sinistra schierata coi lavoratori invece che con gli azionisti passa di qui, non dall’ennesimo contenitore elettorale.
Il tema delle nazionalizzazioni, posto al centro dell’agenda politica dal disastro di una settimana fa a Genova, porta con sé una riflessione su 30 anni di politica economica basata sul dogma del “meno Stato più mercato”. Se analizziamo la questione a partire dai dati e soprattutto calandola in un contesto internazionale ne ricaviamo alcuni elementi di giudizio.
Partiamo da Genova. Il venir meno della sicurezza stradale non è un’esclusiva italiana. A chi crede nel mito della “anomalia italiana” possiamo garantire che l’Italia in realtà è normalissima. Uno studio pubblicato a marzo del Bundesamt für Strassenwesen rivela che in Germania solo il 12,5% dei ponti è in buone condizioni, il 12,4% in cattive condizioni, il 75,1% così così. In Francia e in Gran Bretagna strade e ponti si trovano in una situazione analoga, al punto che l’OCSE parla di una “tendenza internazionale al sottofinanziamento delle manutenzioni” delle infrastrutture di trasporto. Noi ci collochiamo in questo trend internazionale: se la Gran Bretagna in 10 anni dimezza la spesa per la manutenzione stradale da 5,9 a 2,8 miliardi di euro, l’Italia ne taglia un terzo: da 13,5 a 9 miliardi. Secondo il Ministero dei Trasporti la spesa per la manutenzione ordinaria nel comparto autostrade dal 2009 al 2016 è scesa da 707 a 646 milioni (-8,6%), solo nel 2016 il taglio è del 7,3% (magari Renzi e Delrio potranno spiegarci il perché). Ma Autostrade per l’Italia tra il 2008 e il 2016 ha fatto peggio: da 300 a 262 milioni (-12,5%).
La ragione a me sembra semplice: secondo il Sole24Ore nel 2015 l’AD di Autostrade, l’ingegner Castellucci, ha incassato compensi per 6,22 milioni di euro, di cui 2,74 di stipendio e il resto in azioni e stock option. Il che significa che ogni euro che Castellucci spende in manutenzione lo toglie non solo a chi l’ha nominato garantendogli questo generoso trattamento, ma anche a se stesso. Tutti i passaggi fondamentali nella vicenda delle autostrade e, a Genova, del Ponte Morandi sono stati gestiti da un centrosinistra (sostenuto dalla sinistra radicale) che ha sempre messo al primo posto gli interessi di ristretti comitati d’affari (una ricostruzione dettagliata in PuntoCritico210818). Un PD che da 20 anni se la mena col conflitto di interesse di Berlusconi dovrebbe spiegarci se considera il conflitto d’interesse di Autostrade meno importante, tanto più che nel 2007 ha regalato a Benetton e soci condizioni che – come emerge in questi giorni – rendono la revoca della concessione, anche in caso di inadempienza contrattuale del concessionario, un campo minato (condizioni entrate in vigore con Berlusconi nel 2008, ma scritte sotto Prodi e Di Pietro). La domanda è: perché mai Autostrade avrebbe dovuto investire in manutenzioni a danno degli azionisti, visto che lo Stato le aveva dato la garanzia di farla franca?
Oggi la decisione da prendere quindi non riguarda le autostrade, ma il bilancio di 25 anni di liberalizzazioni. Agli inizi degli anni ’90 ci venne spiegato che mettere i servizi sul mercato ci avrebbe portato un miglioramento della qualità, tariffe più basse, maggiore trasparenza. Le aziende pubbliche che producevano una barcata di utili (come le autostrade) sono state perlopiù privatizzate, quelle meno redditizie o fisiologicamente in perdita (trasporti, sanità) sono rimaste in mano pubblica ma trasformate in enti di diritto privato costretti a rispettare rigidi vincoli di bilancio con finanziamenti statali sempre più risicati e intrappolate in una situazione in cui se sono in rosso si dice che sono inefficienti, se guadagnano le si accusa di rubare il mercato ai privati. 25 anni dopo per quanto riguarda le autostrade abbiamo ponti che crollano, pedaggi alle stelle (+46,5% dal 2004 al 2014), contratti secretati. Negli altri settori secondo uno studio della CGIA di Mestre del 2012 nei primi 10 anni di liberalizzazione del trasporto ferroviario i biglietti sono aumentati del 53,2% e le bollette del gas del 33,5%, circa il doppio dell’inflazione (Sole24Ore140812), un trend confermato da uno studio del CREEF di Federconsumatori. In termini macroeconomici il risultato è stato che le aziende private che si sono assicurate i gioielli di famiglia pubblici creati coi soldi dei contribuenti hanno staccato generose cedole, che nel complesso compensano largamente “incidenti di percorso” come quello di Genova, mentre l’indebitamento dello Stato è aumentato, tanto più rapidamente quanto più a governare sono stati i cultori del rigore (da Monti in poi il rapporto debito/PIL è salito di circa 8 punti).
Anche in questo caso non è un problema italiano. In Inghilterra, patria di Margaret Thatcher e del There Is No Alternative, in 30 anni le tariffe dell’acqua sono aumentate del 40% più dell’inflazione e negli ultimi 10 anni i consumatori ci hanno rimesso 2,3 miliardi di sterline l’anno, mentre gli azionisti hanno incassato 18,2 miliardi in dividendi, a fronte di 46 miliardi di debiti. Nel settore elettrico nel biennio 2016-2017 National Grid (gas/elettricità) ha distribuito 660 milioni di sterline di dividendi che sono costate agli utenti un +12% di costi occulti. L’anno prima le sei maggiori compagnie elettriche avevano aumentato i costi in bolletta di due miliardi di sterline. Dal 2008 al 2016 i prezzi dell’energia in Gran Bretagna sono cresciuti del 26% e il rapporto debito/PIL è più che raddoppiato. Mentre in Germania il costo medio in centesimi di un KwH per una famiglia che ne consumi 3500 l’anno dal 2006 al 2018 è passato da 19,46 a 29,42 (di cui 6,18 costi per la produzione e la vendita, il resto sono tasse e oneri aggiuntivi: anche il fortissimo prelievo fiscale sulle utenze dunque non è un’esclusiva italica). Dunque anche dove c’è uno ‘Stato forte’ la capacità di regolazione del mercato da parte delle istituzioni si rivela un’illusione.
Nonostante ciò partiti politici di centro, destra e “sinistra”, sedicenti esperti e giornalisti da divanetto si ostinano a celebrare l’efficienza dei mercati, accusano di essere “ideologico” chi la pensa come me e si stupiscono se li si accusa di difendere l’establishment. Personalmente dubito che il Governo intraprenda una politica di nazionalizzazioni, sia perché al suo interno molti non ne sono convinti, sia perché non ne ha la forza. E mi sembra che in ogni caso la revoca della concessione ad Autostrade, sempre che vada in porto, sia più una scelta di opportunità che di principio. Ma in politica si giudicano i fatti e non le intenzioni. E i fatti ci dicono che quel che farà il Governo lo vedremo, ma nel dibattito apertosi dopo il 14 agosto Forza Italia sta a vedere, Bersani e D’Alema sono in religioso silenzio, mentre il PD sostiene la tesi dell’indennizzo, cioè quella di Autostrade, così come qualche settimana fa sosteneva le tesi di Confindustria sui contratti a tempo, cioè, piaccia o non piaccia, the show must go on. Il che pone un problema politico: che, a meno che il M5S mi smentisca e intraprenda una politica di ripubblicizzazioni, in Italia oggi non esiste un possibile punto di riferimento politico e organizzativo per questa battaglia.
Allo stesso tempo però la situazione presenta molti motivi di interesse. Il tema delle nazionalizzazioni è al centro del dibattito politico. Nei prossimi mesi i dipendenti ILVA e Alitalia (26mila più l’indotto) dovranno battersi per difendere occupazione e stipendi in un contesto in cui è chiaro che con la gestione privata nella migliore delle ipotesi i lavoratori riusciranno a ridurre il danno. Nel comparto delle aziende partecipate – trasporto, acqua, gas, rifiuti – in autunno a Roma si terrà il referendum consultivo sulla privatizzazione di ATAC, mentre a Napoli da qualche tempo si parla di privatizzazione dell’omologa ANM e più in generale assistiamo a un rapido degrado di aziende spesso formalmente pubbliche ma stritolate nella camicia di forza di una gestione privatistica, con gran parte delle attività esternalizzate ad aziende private e utilizzate dalla politica come collettore di denaro pubblico da indirizzare agli “amici”, per le quali l’alternativa è tra il ritorno alla logica del servizio pubblico e il baratro, mentre la corrente dominante le spinge verso la privatizzazione. E poi c’è quel che si muove sullo stesso terreno ma al di fuori dei nostri confini, di cui non possiamo non tenere conto, perché è evidente che la questione dell’acciaio, del trasporto aereo, dei servizi pubblici non si risolve in Italia se non si affronta come minimo a livello europeo e comunque tenendo conto che oggi un’ora di sciopero in Cina pesa 10 volte un’intera giornata di sciopero in Italia. Credo che la questione del modello economico e anche quella della rappresentanza politica di chi oggi una rappresentanza politica non ce l’ha più si giocherà su questo terreno più che nelle alchemiche scomposizioni e ricomposizioni di vecchi partiti che quando c’era da combattere hanno marcato visita e che ora non hanno più nulla da dire.
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