Media

Più schiumate rabbia e rancore, più quel governo lì se la riderà di voi

24 Maggio 2018

Con una trentina d’anni di ritardo sulle mie personalissime aspettative, la repubblica della rabbia si è insediata con una certa nettezza. È quello stato d’animo che porta una considerevole parte di cittadini – e tra questi cittadini le organizzazioni giornalistiche compatte – a mostrare un aperto rancore nei confronti di un (presunto) usurpatore del Potere, in questo caso, contesto totalmente inedito, il governo Lega-Cinquestelle che sta per formarsi. Si possono tracciare molte ipotesi sui motivi che hanno scatenato questa avversione in qualche misura preventiva, ma per il mondo della sinistra, quella più chic salottiera ma anche quella più agguerrita, il vero nodo è sostanzialmente aver perso la propria terra di riferimento. Non avere più un luogo, fisico e del pensiero, non sapere come muoversi, avere molti dubbi su di sé e sulla futura identità. Puff, tutto svanito.

Un piccolo distillato in purezza, e qui parliamo di noi, è Marco Damilano (Roma, 25 ottobre, 1968), cinquantenne serissimo giornalista, studioso della politica e oggi direttore de L’Espresso, il quale l’altro giorno da Mentana commentava la “solenne” giornata del premier incaricato. Nel momento in cui questo professor Conte si è imbarcato su un taxi fuori dal Quirinale, è arrivato a Montecitorio, ha pagato, e poi si è avviato alla Camera, la telecamera, impietosa, ha inquadrato il volto di Damilano verde di rabbia. Quella scena di Conte, evidentemente “straordinaria” in sé e prima assoluta nella storia repubblicana, è stata chiosata dal nostro direttore con parole piuttosto livide. Era una scena di demagogica semplicità, molto cara alla comunicazione Cinquestelle, che si poteva risolvere con ironia puntuta o maliziosa, e invece niente.

Prima di parlare di voi, voi di sinistra salottiera e non, voi non giornalisti per intenderci, che in queste ore avete instancabilmente cannoneggiato sui social, opponendo il vostro terrore e la vostra rabbia allo scempio che stava per compiersi – un governo estraneo alle vostre misure politiche – qui si dedicherà qualche riga alla condizione disadattata ma illuminante del «Foglio», il giornale a cui diede vita e corpo Giuliano Ferrara e che oggi ha la sua guida in Claudio Cerasa. Debbovi preventivamente, per quel pizzico di onestà che ancora mi resta, declinare ciò che penso dei foglianti di questi anni post-ferrariani, avendoli letti e visti all’opera: nessuno d’essi può fregiarsi del titolo di giornalista, pur tesserati regolarmente, in quanto sin dal primo giorno di vita, ognuno ha sparato in pagina sempre e solo la propria opinione, che avesse 15, 20 o 25 anni, dunque giornalisticamente in culla, mai spalando nulla della merda di un mestiere che ancora può far di te un buon cronista.

Ecco, il Foglio è un caso di scuola. Clinico, si sarebbe detto. Ha perso tutti i suoi mondi, quello di una storia importante che fece capo a Berlusconi e che lo rese grande, e poi quello renziano a cui s’appoggiò con troppa ingenua speranza il giovine direttore Cerasa. Senza più terra, senza più riferimenti, ha escluso dalle sue radici la storica visione in controluce ch’era il marchio di fabbrica, per abbracciare la battaglia supercazzolesca della democrazia in pericolo per via della Casaleggio&C., e via con appelli da firmare, invocazioni agli intellettuali dal sonno pesante, tazebao e quant’altro. Un modesto succedaneo del «Fatto», senza la caratura giustizialista di quelli. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il rancore e la schiuma rabbiosa hanno preso il posto delle evoluzioni intellettuali spesso sorprendenti, la terra che è mancata sotto i piedi ha prodotto un allineamento verso il basso. Si può dire con buona approssimazione che il Foglio ha contribuito al successo Cinquestelle.
Sia nel caso Damilano sia nel caso del Foglio, le ragioni di questo rincrudimento risiedono nella perdita di un linguaggio politico, quei riferimenti che hanno fatto di noi degli animali di questo tempo, a cavallo tra il novecento e la contemporaneità. Non ritroviamo più nulla di ciò a cui siamo stati abituati, che abbiamo studiato, che ci ha formato, nelle parole, nei gesti comuni, nelle azioni che caratterizzano il percorso di questo nuovo, inedito, governo. E come bambini anche un po’ viziati, ci impuntiamo anche là dove servirebbe un minimo di leggerezza. No, qui non si derubrica a bagattella l’esame attento di un curriculum vitae, soprattutto se si tratta della storia personale del futuro presidente del Consiglio. Ma certo, l’incessante bombardamento socialgiornalesco che ha interamente coperto una giornata politica ha avuto qualcosa di malinconico, soprattutto ricordando la leggerezza con cui, invece, s’erano valutati altri casi di una certa complessità. Si è detto: ma è la moneta spesa dai Cinquestelle per tutti i cinque anni della legislatura, che ogni volta hanno spaccato il capello in diciotto chiedendo le dimissioni ora di questo ora di quello.

Sì certo, tutto vero, tutto giusto. Ma allora significa che siamo al dente per dente, è questo il tono della battaglia politica o di quella giornalistica?
C’è un punto, dirimente. Questi signori adesso sono classe dirigente. Combatterli con le loro stesse armi sarebbe non solo ingenuo, ma anche pericoloso. Le loro armi non prevedono profondità culturale e le battaglie si vincono lì. Adesso governano, per cui sgraviamo dalla fuffa il nostro impegno – se parlano, si comportano, se mangiano in un certo modo, questo lo abbiamo già ampiamente visto negli anni scorsi, inutile imbastire inutili dibattiti. Se uno arriva in taxi a Montecitorio, muovi un sorriso di compatimento, non farti venire la schiuma.
Qu toccherebbe a voi, che siete si sinistra e che (giustamente) volete dire la vostra. Sino a che è esistito il Partito Democratico, l’argine era piuttosto definito. Ci si appoggiava, piangenti, sulla spalla del nostro referente politico, immaginando chissà quale riscatto. Ma come è sempre stato chiaro, almeno qui a Stati Generali, la fine del Pd era già sufficientemente evidente senza aspettare l’indecenza dell’ultima assemblea. Ora che terra e lingua comuni sono sepolti, tocca inventarsi una nuova matrice condivisa. Ciò che emerge in queste ore è solo rabbia e rancore. Qualcosa di inimmaginabile per gente di buona sinistra. S’avverte poi, in sottofondo, quell’atteggiamento di superiorità morale – una vecchia questione comunista che torna inesorabilmente – rispetto ai “nuovi barbari”. Attenzione, questa è una china che abbiamo già visto e che non ha dato buoni risultati.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.