Partiti e politici

Piccolo è bello. La retorica verso il burrone

Il Veneto è sempre meno competitivo, ma per l’assessore regionale allo sviluppo economico va bene così. Il modello di sviluppo non si tocca

12 Febbraio 2025

Martedì 11 febbraio il Consiglio regionale del Veneto ha avviato i lavori su una proposta di legge della giunta che ha l’obiettivo di attirare investimenti e nuove imprese. Durante l’accesa discussione con le forze di opposizione sull’efficacia o meno del provvedimento, l’assessore allo sviluppo economico, Roberto Marcato ha affermato che «il 97 per cento del Pil del Veneto è creato da imprese che hanno meno di nove dipendenti». Il dato è evidentemente sbagliato e si tratta di un errore grossolano, in particolare per l’assessore le cui deleghe non sono caccia e pesca, ma riguardano il comparto economico di una delle regioni più importanti d’Italia sotto questo profilo. Dubitiamo che l’assessore non sapesse di cosa stesse parlando, ci torneremo dopo. Ora vorrei focalizzarmi sul messaggio.

La frase va contestualizzata e completata con un’altra dichiarazione rilasciata da Marcato in aula. Misure sull’attrattività di nuovi capitali e imprese sono sollecitate da tempo dal comparto industriale. Il presidente di Confindustria Veneto, Enrico Carraro, in una recente uscita pubblica a chiusura del suo mandato, aveva lamentato l’inerzia della Regione e la visione politica troppo orientata alle piccole e micro imprese e troppo poco attenta alle dinamiche che invece solo aziende molto robuste in termini di dimensioni e fatturati riescono ad affrontare. L’assessore Marcato ha sottolineato la diversità di vedute rispetto a Confindustria e ha completato l’affermazione riportata sopra chiarendo che quello delle micro imprese è «il modello vincente in Veneto. La matrice economica della Lombardia è la finanza, l’Emilia Romagna ha nella Motor Valley la sua potenza di fuoco. Noi non abbiamo né finanza né motor valley ma nonostante tutto il nostro tasso di competitività è uguale».

La retorica passatista

Le piccole e micro imprese, artigiane e industriali, sono l’universo di riferimento della Lega. Il lavoro senza sosta, il piccolo paron che guarda ai suoi operai come alla sua famiglia, il legame indissolubile con il territorio, il campanile, sono tutti elementi della retorica che alimentano la costituency leghista che si adorna dei detti popolari e li fa assurgere a livello di slogan politici: così abbiamo ‘i veneti che si tirano su le maniche’, ‘prima fare poi pensare’ e via discorrendo nella costruzione di un’identità che oggi ingabbia il discorso pubblico e impedisce la penetrazione di qualsiasi analisi critica. Il cuore di questo discorso sta nella frase ‘piccolo è bello’, inteso come dimensione industriale ed economica. Una retorica che guarda palesemente al passato e tuttavia inservibile in un contesto in cui sono le conoscenze, i dati e la capacità di governare le tecnologie gli elementi chiave del successo individuale e di impresa. 

Forse in passato è stato così, gli anni del boom economico e le provvidenze del Vajont hanno spinto uno sviluppo vorticoso e disordinato e comunque è innegabile che il Veneto sia diventato una delle regioni trainanti in Italia. Ma oggi? L’armamentario culturale leghista di cui non ci si riesce a liberare è inservibile per affrontare la situazione attuale. La Lombardia ha la finanza (non solo, ovviamente, ma facciamo finta che con quel termine l’assessore volesse indicare le principali funzioni a valore aggiunto: ricerca e sviluppo, design, marketing, logistica, finanza, servizi alla clientela, ecc.) e l’Emilia Romagna ha la motor valley (anche qui c’è chiaramente molto altro e di grande qualità tra cui il Tecnopolo con un centro di calcolo tra i più potenti al mondo) non perché gli siano piovute dal cielo, ma perché hanno saputo mettere insieme quelle risorse e organizzare quelle competenze che hanno creato le condizioni perché ciò avvenisse. Parliamo di università, centri di ricerca, finanza pubblica e privata orientata a perseguire obiettivi prestabiliti, imprese la cui crescita è stata favorita e accompagnata. Per semplificare, forse banalizzare, possiamo affermare che in una certa misura nelle regioni contermini si è presa la strada della pianificazione. Una parola che in Veneto, al contrario, evoca i piani quinquennali di Stalin e quindi è bandita da qualsiasi discorso pubblico e men che meno politico, come la pronunci ti danno del dirigista e poi sono cavoli tuoi. Di conseguenza, il disordine è imperante, i fondi pubblici sono spesi per lo più a pioggia nella logica di non scontentare nessuno e del resto come chiedere a decine di migliaia di micro imprese di organizzarsi, mettersi d’accordo e lavorare in sinergia con gli enti locali, con le università e collaborare tra loro quando il problema principale è la sopravvivenza?

La demografia delle imprese in Veneto è un problema

A dispetto degli slogan e della propaganda, la demografia delle imprese in Veneto è e rimane uno dei principali fattori di debolezza dell’economia e una fonte di continua preoccupazione. A fine 2022 l’Istat registrava in Veneto 407.980 imprese di cui 381.974 con meno di 10 addetti, 22.548 nella fascia 10-49 addetti, 3.023 aziende che registravano tra i 50 e i 249 dipendenti e 435 con oltre 250 persone impiegate. In un’epoca in cui il valore si estrae non più dalla produzione ma dalle funzioni a monte e a valle, quella che banalmente Marcato chiama ‘finanza’, questa composizione demografica è un problema. Infatti la maggior parte delle funzioni a valore aggiunto sono state delegate a Bologna e Milano, impensabile per una micro impresa investire in Ricerca e Sviluppo. Se consideriamo che nel frattempo il Veneto ha perso gran parte dei centri decisionali pubblici e privati, la regione è ridotta a un sostanziale ruolo di terzista dell’industria meccanica tedesca (nel 2023, il Veneto ha esportato beni verso la Germania per circa 10,7 miliardi di euro, pari al 13% del totale regionale), con il risultato che se alla Germania viene un raffreddore, a noi tocca la polmonite. Non a caso, in pochi mesi le ore di Cassa integrazione ordinaria in Veneto rilevate dall’INPS tra dicembre 2023 e dicembre 2024 sono aumentate del 66,54% passando da poco meno di 3 milioni a quasi 5 milioni, mentre le ore di CIG Straordinaria hanno avuto un picco del 272,47% da 81.302 a 302.822. A soffrire sono soprattutto i settori della meccanica, dell’automotive e del lusso.

Modello di sviluppo fragile

Da tempo accademici ed economisti sottolineano le fragilità di questo modello di sviluppo. Nel 2019 Marco Bettiol docente di economia e gestione delle imprese dell’Università di Padova scriveva: «Abbiamo delle belle isole, le imprese eccellenti, in un mare che forse non è più attrattivo come un tempo. Il campanello di allarme riguarda soprattutto l’emorragia di giovani laureati che escono dalla regione non controbilanciata da adeguati flussi in ingresso, come dimostrano le recenti ricerche della Fondazione Moressa. Questa fuoriuscita riguarda particolarmente il Veneto, mentre le altre regioni del triangolo manifatturiero, Emilia Romagna e Lombardia, hanno aumentato la propria attrattività nei confronti dei giovani laureati come evidenziato dall’indagine BES dell’Istat. A peggiorare questo quadro si aggiunge anche il fatto che il Nordest ha il salario di ingresso più basso del norditalia e questo spinge forse a cercare altrove migliori opportunità professionali».

Negli ultimi anni gli studi si sono moltiplicati, tra questi quelli di Giancarlo Corò e Sebastiano Cattaruzzo dell’Università Ca’ Foscari di Venezia o di Giulio Buciuni del Trinity College di Dublino. Però il senso di urgenza che porta ad agire rimane confinato tra gli accademici e alcune associazioni di categoria, segnatamente CNA per gli artigiani e Confindustria per le imprese.

In Veneto si registrano mediamente meno brevetti che in Emilia Romagna e in Lombardia, le possibilità di carriera sono essenzialmente legate alla produzione di semilavorati e i salari di ingresso sono nettamente inferiori rispetto alle regioni contermini. Perché un laureato in qualsiasi regione d’Europa o d’Italia dovrebbe trasferirsi in Veneto? Difatti non lo fa, non solo, ma dal 2011 al 2023, secondo i dati della Fondazione Nord Est il Veneto ha registrato una perdita netta di 34.896 giovani di età compresa tra 18 e 34 anni, con l’80% di questi trasferimenti diretti verso paesi dell’Unione Europea. Nel solo 2023, il saldo migratorio per questa fascia d’età è stato negativo per 3.759 unità.

PMI più esposte agli eventi esterni

Le piccole e micro imprese sono quelle più esposte ai marosi del tempo, cioè agli eventi che nessuno può governare: una guerra, un aumento improvviso delle materie prime, la chiusura di un mercato di riferimento, dazi, il fallimento di un fornitore o di un cliente prevalente sono tutti eventi sistemici che in un’organizzazione di poche persone con marginalità infinitesimali hanno la potenzialità di essere fatali. E infatti muoiono. Uno studio di CNA Veneto ha rilevato che a fine 2023 il saldo delle imprese era sceso dell’1,9% rispetto al 2019, con una perdita di 8.129 unità. Nello stesso periodo la flessione a livello nazionale è stata dello 0,8%. Il calo in regione ha interessato tutti i comparti, tranne le utilities, i servizi alla persona e i servizi. 

Preoccupazioni politiche e necessità reali

Torniamo alle affermazioni di Marcato secondo cui il Pil regionale è generato al 97% da imprese con meno di 10 addetti. In via preliminare l’errore è macro ovvero, senza addentrarci nei difficili calcoli per determinare il Prodotto interno lordo, basta scorrere i dati Istat per verificarlo. Nel 2023 il PIL regionale si è attestato a 197 miliardi e 135 milioni di euro, di cui 25,5 miliardi derivanti dall’amministrazione pubblica e già qui i conti non tornano. Forse però l’assessore si riferiva al contributo offerto dal comparto industriale e manifatturiero. Secondo calcoli elaborati da Cattaruzzo e Corò nel 2023, il 90% dell’export italiano è generato dal 10% delle imprese che esportano di più, una buona parte delle quali sono aziende multinazionali di medie e grandi dimensioni. Una regola che vale grosso modo anche per il Veneto dove  l’export ammonta a circa 82 miliardi l’anno. Quindi è possibile dire che una parte preponderante della ricchezza generata nella nostra regione è dovuta a imprese di medie e grandi dimensioni, l’esatto opposto di quanto sostiene l’assessore Marcato.

Ultima ipotesi, Marcato si è spiegato male e voleva semplicemente illustrare la consistenza demografica delle imprese venete. In questo caso ha detto una cosa vera, la stragrande maggioranza delle imprese venete ha meno di 10 addetti (la percentuale esatta è 93,63% stando ai dati 2022, non del 97%, ma la sostanza non cambia). Rimane però il fatto che questi dati costituiscono un problema e non un’opportunità, sono un fardello del passato e non lo strumento con cui affrontare il futuro.  

Forse l’assessore è troppo preoccupato ad alimentare una retorica suadente verso il proprio elettorato di riferimento per vedere le nubi che si addensano all’orizzonte. Tuttavia la perdita di competitività del Veneto è nei dati e non è sufficiente inventarsi una contrapposizione tra grande industria e piccole imprese per eludere il problema. Probabilmente, una politica e politici lungimiranti dovrebbe rimboccarsi le maniche e trovare le leve per consentire al Veneto e alle sue imprese di essere protagonisti nell’economia della conoscenza, anziché continuare a raccontare che tutto va bene e che il modello di sviluppo attuale rappresenta un’assicurazione inscalfibile.

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