Partiti e politici
Il solito Piantedosi, Silvio in Fascina e il nuovo Pd che sa di vecchio
C’è sempre una sproporzione tra la storia e la cronaca. Il fatto che la seconda costruisca la prima non basta a eliminare lo stridore tra la grandezza e la tragedia dei fenomeni sociali, che segnano la traiettoria dell’umanità, e le piccolezze dei molti che – anche da protagonisti – fanno la loro parte per costruire appunto quella traiettoria. Ogni destino collettivo, del resto, è costruito dal brulicare di milioni di umani, dai capi di stati agli ultimi apolidi, che più o meno consapevoli disegnano un’epoca. La scrivono e la tramandano a chi verrà dopo.
Pensiamo alla settimana che si chiude, nel mezzo del tempo che viviamo e vivremo. L’onda lunga della tragedia di Cutro, ottantotto morti accertati, più di trenta bambini, continua a spezzarsi a riva, a erodere pezzi di spiaggia. Perché, mentre all’appello mancano ancora pochi corpi, quella tragedia inaccettabile ed evitabile si rimaterializza ogni minuto nelle notizie che arrivano dal Mediterraneo, dall’avamposto italiano sulla zolla africana di Lampedusa. Sono arrivati a migliaia, e altre migliaia arriveranno. Perché la spinta della storia ha sempre portato gli esseri umani, per speranza o disperazione, ad andarsene da dove si è nati per cercare un altrove migliore. E non fa certo eccezione un tempo come questo, con la crisi climatica e la circolazione globale di informazioni e persone facile come mai prima. Di fronte al continui manifestarsi di questa epopea umana, quella delle migrazioni, che talora hanno la forma della tragedia e altre volte ricordano che esiste anche un lieto fine o, più propriamente, un lieto inizio, si potrebbero dire molte cose. Tutte legittime, nelle diverse sensibilità che rivelano. Si potrebbe ad esempio insistere, politicamente, per cambiare le regole europee che supervedono all’arrivo “senza titolo” di esseri umani su un suolo che è italiano per storia, ma oggi europeo per scelta. O si potrebbe, dall’altro lato, discutere del fatto che sino a quando il paradigma fondativo del nostro stare insieme resta formalmente quello dello Stato-Nazione è sostanzialmente impossibile essere davvero “umanitari”, ed esserlo con tutti quelli che lo meritano davvero, e non in base alle ipocrite classifiche dei bisogni che stiliamo. Oppure, ancora, si potrebbe essere schiettamente utilitaristi, e dire che di “migranti”, in quanto braccia e contribuenti, abbiamo bisogno: e pretendere di decidere noi quanti, e quali, e da dove. E gli altri fuori, d’accordo con gli altri paesi europei uniti in nome della democrazia e dei tanti “mai più” sui quali si era giurato e, probabilmente, spergiurato. Nessuna scelta politica, in questo campo, sarebbe semplice, indolore, neutra o facile. Da nessun punto di vista.
Quel che sicuramente non si può fare, tuttavia, è affidare continuamente questioni epocali alla propaganda spiccia di un ministro dell’Interno, come Matteo Piantedosi, che sta diventando una certezza che non conosce sorprese. Dopo la frase, a tragedia di Cutro appena accaduta, che colpevolizzava i genitori dei bambini morti in mare, a poche decine di metri dalla costa italiana, è arrivata la colpevolizzazione dell’opinione pubblica italiana – “favorevole agli sbarchi, mentre altrove sono più intransigenti” – perché sarebbe responsabile di “attrarre” i migranti, col suo atteggiamento lasco. Non è invero chiarissimo dove sia l’opinione pubblica italiana favorevole a sbarchi e accoglienza, visto che ormai da anni gli italiani si esprimono in tutte le sedi – a cominciare da quella elettorale – in maniera opposta. Ma ancora meno chiaro è in che modo quest’opinione pubblica, quand’anche esistesse, potrebbe contare di più della geografia del Mediterraneo, che fa delle coste italiane le più accessibili dal nord-africa e in particolare da Tunisia e Libia. È, quello di Piantedosi, il paradosso di chi invoca il “buon senso” a ragione delle proprie azioni, e poi però analizza la storia e il suo spirito profondo con parole che ne sono del tutto sprovviste. In un governo che Giorgia Meloni vuole connotare, sempre di più, come l’esperienza fondativa di un nuovo conservatorismo, tutto sommato tranquillo fino a sembrare noioso, rischia di diventare un problema, se già non lo è.
Sul tavolo di questo momento politico, poi, arriva la questione delle nomine di competenza governativa per le grandi aziende partecipate dallo stato. Eni, Enel, Poste, Leonardo, Terna, solo per fare alcuni nomi. Ricerca e distribuzione delle materie prime per l’energia, scelte energetiche di lungo periodo, connessioni materiali e immateriali tra persone, famiglie, aziende, reti, industria bellica, questioni etiche e legate al futuro della ricerca applicata, sicurezza nazionale. Questi sarebbero – detti male e in fretta – solo alcuni dei temi che sono in gioco, quando si sceglie il management che deve occuparsi delle aziende che abbiamo elencato. E invece, in maniera non difforme alla tradizione che abbiamo visto consolidarsi lungo gli anni, chi governa sembra principalmente interessato a contare quanti suoi uomini (piacerebbe poter aggiungere “e donne”, ma sarebbe pura retorica, parità verbale senza alcuna rispondenza nella realtà) potrà dire di avere inserito negli organigrammi che contribuiranno a decidere il futuro modello di sviluppo del paese. Leggiamo, sui giornali, che è in corso un braccio di ferro molto acceso tra Meloni e Salvini, su chi deve andare dove, su quante caselle spettano alla Lega e quanti al partito della presidente del Consiglio. Sicuramente ci sarà anche dell’altro, ma bisogna cercarlo molto bene. E molto bisogna credere alla buona coscienza di questa politica, anche in assenza di solide evidenze, per non pensare al fatto che la maggioranza dei ministri leghisti ha disertato per ordine di scuderia la seduta al Senato in cui Meloni spiegava la linea pro-Ucraina, corroborata dalla fornitura di armi all’esercito di Kiev. Oltre e più delle note antiche amicizie russe, per il partito di Salvini avrebbe contato appunto la partita delle nomine. Quindi, si è usata una questione di politica internazionale fondamentale e delicatissima, per mandare un segnale di malcontento alla presidente del Consiglio, considerata troppo decisionista e non abbastanza mediatrice, anche e soprattutto quando si tratta di distribuire poltrone e dividere in parti eque pezzi di potere.
Ai margini della battaglia principale, quella che oppone Matteo e Giorgia, si muovono piccole truppe e vecchie storie politiche che non sanno se e come sopravviveranno. Pensate a Silvio Berlusconi e alla sua Forza Italia. Nei giorni scorsi è tramontata definitivamente la stella di Licia Ronzulli, dopo che era tramontata quella di Maria Stella Gelmini, dopo che era tramontana quella di Mariarosaria Rossi, e chissà quante altre prima e dopo. Con lei cade Alessandro Cattaneo, sostituito nel ruolo di capogruppo alla Camera. Da oggi, a tenere le redini di quello che è stato il più importante partito italiano degli ultimi trent’anni, sarà Marta Fascina. In asse, pare, con Marina Berlusconi. Casa e bottega, si diceva una volta: la quasi moglie e la certamente figlia del patriarca. La prima immersa in parlamento, la seconda a capo di un impero economico invecchiato e che prima o poi dovrà pensare a un futuro possibile. L’interesse di entrambe le dimensioni è la stabilità del governo e del parlamento, e quindi la nuova linea politica sarà di maggior sintonia e pacificazione con Giorgia Meloni, come da tempo chiede il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che mostrando da subito curriculum e fedeltà ha ottenuto il posto del capo della diplomazia.
E dall’altra parte, che aria tira? È passato un mese esatto dalla sue elezione a segretaria del Partito Democratico. Un tempo troppo breve per qualunque tentativo di bilancio. Un tempo però appena sufficiente per intravedere le linee di continuità e discontinuità col passato. In un bell’articolo pubblicato sul Domani qualche giorno fa, e firmato da Nello Trocchia, si identificavano alcune continuità non proprio entusiasmante col vecchio partito dei capibastone. Nel ritratto-inchiesta si leggevano i nomi di diversi potenti del vecchio Pd che contano ancora, non poco, nel nuovo Pd. Crisafulli, Mazzarano e diversi altri notabili di un vecchio potere, e di un vecchio e non sempre specchiato modo di gestirlo. Ci sono ancora tutti, e sicuramente non per fare numero. O meglio, anche per fare numero, perchè quando i voti da cui si parte sono pochi è difficile fare a meno di chi ne ha un po’: è difficile anche per chi punta tutto sul proprio portare un vento nuovo, come ha fatto dall’inizio Elly Schlein. Del resto, che cambiare rotta sia difficile lo dimostrano anche i giorni appena passati. Non è certo colpa di Schlein se un partito fondato sulle correnti non riesce a fare a meno di contarsi e ricontarsi in correnti. In questi giorni ferve la polemica tra la segretaria e l’area del presidente del Partito, Stefano Bonaccini, che a lei era contrapposto alle primarie di un mese fa. Una polemica tutta interna, che ha per oggetto principale la nomina di nuovi capigruppo alla Camera e al senato. Figure che Schlein vorrebbe più vicine a sé, ed è su questo che si tenta di mediare o si rischia di contendere. A fare i pedanti si potrebbe anche obiettare che, insomma, quel che ha deciso il gruppo parlamentare potrebbe anche sopravvivere a quel che succede nel partito, perché il parlamento è sovrano, e il fatto che in Forza Italia si sia fatto qualcosa di analogo non dovrebbe essere una buona ragione per fare la stessa cosa – tanto più che la segretaria ci ha detto di aver cambiato squadra dopo aver scoperto chi era, in quel tempo calcisticamente glorioso, il proprietario del Milan. Ma a farla più semplice ci si potrebbe anche chiedere: ma davvero una nuova politica, e una politica nuova, che vuole riportare la sinistra per strada, e le piazze nella sinistra istituzionale, deve partire dal nominare nuovi capigruppo più fedeli, tanto più adesso, che davanti c’è una vita di opposizione e l’unica cosa che conta è ritrovare un popolo, uno qualsiasi, purchessia?
Da oggi, e ogni fine settimana, cercherò di raccontare per immagini quel che è successo nella politica italiana. Questa è la prima tappa del viaggio. L’obiettivo è non perdersi nulla di importante. E non dare troppa importanza a quel che importante non è. Perché nel tanto rumore è facile confondersi. Spero che, insieme, ci aiuteremo a farlo meno che si può.
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