Partiti e politici

Perché la sinistra dovrebbe (ancora) rappresentare i ceti popolari?

9 Febbraio 2020

La sinistra europea è nel pieno di una grande crisi, di cultura politica, idee, proposte programmatiche e di governo. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, ma forse anche prima, si trova in una condizione di costante ricerca di modalità inedite per ripensare la società contemporanea e definire le proprie priorità per l’agenda di governo, scontando nel contempo una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi subalterne.

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A partire dal nuovo secolo, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nella loro storica constituency dei ceti popolari.

Corresponsabile di questa crisi generalizzata è stata (anche) la contemporanea nascita e la impressionante crescita di consensi di raggruppamenti di matrice sovranista e neo-populista, o la rinascita di formazioni politiche apertamente legate alla destra storica, che in anni recenti hanno incontrato il consenso delle fasce sociali più fragili, e stanno inoltre sempre più incrementando il proprio gradimento anche in ampi settori del cosiddetto ceto medio, a sua volta messo in difficoltà dalla prolungata crisi economica dell’ultimo decennio.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini. Un successo che è plausibile duri nel tempo, almeno nel medio periodo, perché il suo discorso tocca le corde giuste della popolazione, molto più delle argomentazioni della sinistra e del Partito Democratico.

Non a caso gli unici territori dove la Lega non sfonda, come del resto abbiamo visto accadere alle destre anche negli altri paesi, sono soprattutto le grandi città. Milano, in particolare. E il motivo è presto detto: sono i luoghi dove economia e occupazione registrano i livelli più elevati, sono le aree più benestanti, dove le paure e le incertezze sul futuro economico-sociale sono meno presenti.

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Dopo aver per lungo tempo rappresentato il punto di riferimento del mondo del lavoro e l’orizzonte di emancipazione delle masse popolari, nel corso degli ultimi 30 anni, la sinistra ha sostanzialmente cambiato volto. Ha cercato di fare i conti con l’affermazione storica del capitalismo sul comunismo e si è aperta ai valori della tradizione liberal-democratica, ma secondo modalità alquanto ambivalenti e senza mai esplicitare una scelta decisa e risolutiva.

Se oggi i partiti di centro-sinistra europei, accanto al PD nostrano, sono forse gli unici che cercano in qualche modo di fare i conti con i mutamenti della società, sia dal punto di vista economico (la globalizzazione e l’insicurezza del lavoro) sia sociale (le ondate migratorie e l’ibridazione etnico-culturale), lo fanno con una costante paura di esplicitare scelte che camminano in direzione forse contraria alla tradizione del mainstream socialista e comunista. E senza quel necessario processo di aggiornamento e revisione della propria cultura politica in grado di chiarire agli elettori la continuità ideale e valoriale esistente, in linea di principio, fra le sfide della sinistra del Novecento e quella del nuovo secolo.

In fondo, la sinistra di ieri puntava a trasformare la società interpretando le contraddizioni di cui erano vittima le classi più dinamiche della società, quelle che Marx chiamava le forze produttive. Oggi è sempre l’accordo fra le forze più dinamiche e produttive della società che potrebbe reggere le sfide del nuovo secolo, contrastando vecchie e nuove forme di svantaggio con risposte politiche e di governo alternative a quelle del campo sovranista.

Se le proposte politiche della odierna sinistra paiono dunque, quando ci sono, più “raffinate” e riflessive, benché esenti da una chiara progettualità per una ipotetica società futura, esse si scontrano quotidianamente con le ondate di problemi e di paure che attanagliano l’immaginario collettivo, il pericolo percepito di una sorta di distruzione dei valori fondanti della civiltà occidentale. Una sinistra che si è voluta proporre come valida e capace alternativa nell’assumersi il difficile compito di governare i cambiamenti epocali delle società occidentali, e non solo di denunciarne le criticità stando all’opposizione, rischia così di restare confinata ai margini del processo di governance. Per molti anni ancora.

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*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale

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