Partiti e politici

Perché il renzismo è diverso ad ogni campanile

2 Giugno 2015

Premessa da militante cinico-pragmatico: ciò che conta è “portare a casa il risultato”. Il PD governa in quindici regioni su venti, al netto dei voti persi e dell’astensionismo crescente, al netto di ogni critica – legittima o meno – al renzismo. Anzi, a dirla tutta, l’appartenenza al PD non c’entra poi granché. In un momento in cui il Centrodestra italiano sta per venire egemonizzato da un partito di destra radicale quale la Lega di Salvini (Salvini, quello delle ruspe sui campi Rom, ricordate, amici antirazzisti che mai e poi mai votereste Renzi?), l’essere riusciti a tenerlo lontano dalla maggior parte dei governi locali è, per quanto mi riguarda, una buona notizia.

La vittoria di Toti in Liguria ha dell’incredibile, ma va annoverata tra gli incidenti che ogni tanto capitano. È forse troppo comodo attribuire il pasticcio ligure alla sola scissione di Pastorino, e tuttavia rimangono quei dieci punti drenati a sinistra. Rimangono, purtroppo, le espressioni di soddisfazione dei civatiani, espressioni che non dimenticherò tanto presto. Cofferati, Civati, Pastorino e soci si godano il loro effimero successo, si divertano ad aprire l’ennesima discussione/costituente/laboratorio a Sinistra, perché è possibile che ancor prima del prossimo appuntamento elettorale nazionale il loro peso si riduca a quello della piccola galassia rosso-verde, ormai quasi scomparsa. Il loro destino è segnato.

Soltanto quindici anni fa una scelta simile si poteva identificare con le frange marxiste residuali nel centrosinistra. Ed era una scelta politicamente più sensata e rispettabile di quella attuale, che vede dei socialdemocratici e dei liberali di sinistra come Civati abbandonare un progetto politico che dovrebbe essere molto più grande del loro ego e persino dell’ego di Renzi. L’idea di partito, e delle sue dinamiche locali, è forse il tema centrale, eppure costantemente eluso, del nuovo corso renziano.

A fronte della tendenza settaria delle primedonne, con la loro incapacità di essere minoranza in un partito di massa,  il premier-segretario continua a dimostrare un sostanziale disinteresse per la gestione unitaria del PD, in particolare rispetto alle situazioni locali. Un po’ come il PSI craxiano, infatti, il PD di Renzi non interviene direttamente nelle questioni locali – i commissariamenti sono delle eccezioni notevoli e obbligate – e dalle primarie del 2013 ha semplicemente praticato una politica di appeasement con i leader locali della Ditta, sfruttandone i portafogli elettorali e adattando la propria narrazione alle singole realtà.

Non si tratta, evidentemente, di capacità di mediazione, ma di calcolo tra i più bassi. Renzi “strappa” soltanto con i liderini privi di un feudo. Lo si è visto in modo chiarissimo in Liguria, lo si è visto altrettanto chiaramente a Venezia. Due situazioni in cui, per motivi diversi, la credibilità del Centrosinistra è in crisi, ma in cui i propositi di rottamazione sono stati in qualche modo sospesi e ai renziani della prima e dell’ultima ora è stato consentito il “rompete le righe”.

La differenza sostanziale tra la Liguria e Venezia riguarda la scelta del candidato. Assai rischioso proporre la Paita, rappresentante la continuità col sistema Burlando, assai più intelligente sostenere – a primarie concluse – Felice Casson, candidato lontano anni luce dal renzismo e tuttavia unica possibilità per il centrosinistra di mostrarsi rinnovato e di non perdere, dopo più di vent’anni, il governo cittadino. Ovviamente il sottoscritto sosterrà Casson nel difficile ballottaggio che lo aspetta, ma il problema di fondo di un partito diverso ad ogni campanile rimane lì, e un segretario degno di questo nome dovrebbe risolverlo, possibilmente  prima del 2018.

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