Partiti e politici

Perché gli italiani e la sinistra hanno bisogno dei vaccini Salvini e Di Maio

13 Marzo 2018

«Berlusconi è una di quelle malattie che si curano con il vaccino e per guarire da Berlusconi ci vuole una bella dose di vaccino Berlusconi. Bisogna vederlo al potere». La famosa citazione è di Indro Montanelli ed è tratta da un’intervista che il giornalista rilasciò al collega Enzo Biagi nel 2001. Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Le due grandi firme purtroppo non sono più tra noi e sulle poche copie che vendono i giornali che un tempo le ospitavano ci si deve accontentare dei sermoni dei loro allievi più scarsi. Un segno dei tempi, perfettamente in linea con il regresso umano e culturale che sta attraversando da decenni un Occidente ormai non più centro indiscusso del potere e dell’economia del pianeta. Un’area geopolitica che a causa dell’impoverimento delle sue classi medie vede l’esplodere di pulsioni populiste e il riproporsi di ideologie estreme.

In Italia il fenomeno si è manifestato in varie forme. Negli anni ’90 è esploso con l’avvento di Silvio Berlusconi e la nascita di Forza Italia, una forza politica costruita intorno a un leader e di fatto di sua proprietà: all’epoca era un’anomalia nel panorama occidentale. Successivamente alla caduta del Cavaliere – sconfitto definitivamente dal “bunga bunga”, non certo dai suoi avversari politici – il populismo è velocemente mutato favorendo l’ascesa del Movimento 5 Stelle, un partito-azienda molto più simile a Forza Italia di quanto si possa pensare. Contemporaneamente, la lunga crisi ha accentuato le disuguaglianze, producendo guerre tra poveri (disoccupati contro migranti) e favorendo un ritorno prepotente dell’estrema destra in tutto il vecchio continente. Un’estrema destra che oggi si pone come obiettivo principale il ritorno delle sovranità nazionali e – di fatto – la fine dell’Europa come soggetto politico al di sopra degli stati. Nel Bel Paese, a conquistare l’egemonia di quello spazio politico è stato Matteo Salvini. Il leader leghista si è mosso inizialmente come un “cane sciolto”, proponendo una versione maccheronica del lepenismo francese e dando un respiro nazionale a una forza che fino a quel momento si era fondata su una rappresentanza territoriale. Una volta percepita la crescita di consenso ottenuta soffiando sul fuoco della paura e dei rigurgiti xenofobi ad essa collegati, il capo del Carroccio poi è riuscito a monopolizzare ciò che restava dell’esperienza della destra di governo dell’era berlusconiana. I partiti che un tempo erano egemoni in quell’alleanza, dal 4 marzo sono condannati ad essere subalterni al leader della Lega.

Già, il 4 marzo. Una data destinata a condizionare inevitabilmente gli equilibri politici ed economici del nostro paese, ancora non possiamo prevedere come. Le urne hanno disegnato la geografia di un’Italia sempre più povera e sempre più arrabbiata, che nelle sue aree più ricche e produttive si chiude a protezione di un’illusoria sovranità nazionale e nelle sue aree più povere e disagiate si rifugia nella protesta urlata del “tutti a casa”, coltivando al contempo la speranza dell’ennesimo aiutino di Stato, rappresentato dalla promessa grillina del “reddito di cittadinanza”. Questa Italia ha oggi bisogno di testare sulla sua pelle un governo figlio dei sentimenti che ne hanno orientato il voto. Un governo che non può prescindere dai due grandi vincitori delle elezioni politiche: il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini.

Grande assente, se non in poche “macchie rosse” sulle grafiche dei risultati elettorali, una sinistra ormai senza identità e senza popolo, affossata dalla sua incapacità di rinnovarsi e dall’ego dei suoi recenti capi. Matteo Renzi ha fallito e con lui il renzismo. Nella storia repubblicana è stato il leader più veloce ad ascendere e più veloce a cadere. Il motivo della sua stretta parabola è molto semplice e si può riassumere in una frase che gli rivolse Gianni Cuperlo durante una direzione del Partito Democratico, una frase che lo stesso esponente della minoranza dem ha voluto ricordare in una recente intervista televisiva: «All’apice del suo successo – ricorda Cuperlo – gli dissi che lui non aveva la statura del leader, anche se talvolta coltivava l’arroganza del capo». È vero: mi perdonino i puristi dell’egualitarismo, ma uno dei drammi del nostro tempo è la vulgata diffusa che vede la politica come qualcosa alla portata di tutti, quasi come se l’esercizio del potere fosse una pratica che non debba prevedere – in assenza di un’estrazione sociale che ne faciliti la conoscenza – un percorso formativo e di comprensione profonda dei suoi equilibri. Renzi è stato molto abile nell’occupare lo spazio lasciato incustodito dalla mediocrità del personale politico della cosiddetta “vecchia ditta” (Bersani & co.), ma lo ha fatto utilizzando le stesse parole d’ordine dell’antipolitica, a cominciare da quella “rottamazione” blandita contro i suoi avversari interni che gli ha garantito popolarità nel breve periodo, ma si è rivelata un boomerang dopo le prime sconfitte. Dopo aver scalato il partito con una comunicazione aggressiva e pregna di slogan e hashtag, il “rottamatore” ha palesato i suoi limiti caratteriali e le sue enormi lacune, prima fra tutte l’incapacità di tessere rapporti diplomatici, ma in politica la diplomazia è l’abc: se manca quella non si fa molta strada. La cacciata di Enrico Letta da Palazzo Chigi è stato il gesto che ha sancito la rottura totale tra Renzi e il vecchio establishment dem, non solo per l’atto in sé ma per le modalità grevi con cui si è concretizzato, a cominciare dal famoso “stai sereno”, espressione entrata nel gergo comune per indicare una forma di inganno. Nel giro di pochissimo tempo l’ex sindaco di Firenze, che aveva trionfato alle primarie, si è ritrovato sempre più solo, circondato solo da “yes man” molto servili ma privi di spessore e competenza (nonché di radicamento sui territori, come hanno certificato le ultime elezioni). Un isolamento che non si è però limitato ai gruppi dirigenti del Partito Democratico, ma è andato estendendosi via via in tutto il paese, fino a intaccare lo zoccolo duro dell’elettorato di sinistra. Ben più grave della scissione degli ormai deboli esponenti che hanno fondato Liberi e Uguali (che visto l’esiguo numero di voti che hanno raccolto guardano con sospetto anche i parenti stretti) , è stata infatti la profonda scissione che si è creata fra il partito e la sua base di consenso, dai lavoratori del pubblico impiego agli insegnanti, dagli operai più garantiti ai loro figli precari. L’ex premier ha cercato di mutare il DNA del Pd, contando di riuscire a cristallizzare il 40,8% di consensi ottenuti alle europee del 2014. Un risultato falsato – oggi si può dire – dall’inconsistenza dell’offerta politica dello schieramento di centrodestra e da un “effetto novità” che non poteva che scemare nel giro di poco. Sia chiaro: l’avvento di Matteo Renzi è stato l’effetto naturale dell’involuzione di un partito di fatto mai nato, balcanizzato e controllato da quelle correnti che sabotandolo all’interno costrinsero alle dimissioni il suo fondatore Walter Veltroni (ad oggi il suo Pd resta quello più votato, con oltre 12 milioni di voti alle politiche del 2008) e successivamente il suo successore, Pierluigi Bersani, tradito dai 101 parlamentari che negarono il Quirinale a Romano Prodi.

La drammatica sconfitta del 4 marzo, la più netta nella storia della sinistra italiana, mette oggi il Partito Democratico di fronte a un grande bivio: ritrovarsi o scomparire. Per ritrovarsi dovrà riscoprire le ragioni stesse della sua fondazione, i suoi valori e alcune “precedenze” da dare: quando ci si deve sedere a un tavolo di trattativa come quello che recentemente ha deciso il futuro dei lavoratori di Embarco – per intenderci – non si può stare dai due lati, ma bisogna scegliere come ha fatto Carlo Calenda. Anche la sinistra, che non è solo il Pd ma tutto un mondo che vive fuori dai palazzi e dalle redazioni dei giornali, deve provare sulla sua pelle un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega di Matteo Salvini. Cimentarsi dopo molto tempo in un vero scontro politico contro degli opposti (perché, con buona pace di qualche attempato “intellettuale”, il Movimento 5 Stelle è culturalmente un partito populista di destra) potrebbe aiutare un’opera di rigenerazione e rinnovamento di intenti nella variegata galassia che la compone.

«Mi auguro che Berlusconi vinca le elezioni – confessò Indro Montanelli al suo collega Enzo Biagi –  mi auguro che vinca perché l’uomo con le promesse sappiamo benissimo quale forza trascinante possieda. Mantenerle però è un’altra cosa». Nell’era politica nata dalle promesse non mantenute di Silvio Berlusconi, è tempo che gli italiani e la sinistra si confrontino con nuovi aizzatori di folle e con nuove promesse. Farà bene a tutti.

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