Partiti e politici
Perché dobbiamo ridare centralità all’istruzione
Prendendo parola alla Camera nel 2014, il parlamentare del Movimento Cinque Stelle Davide Tripiedi esordiva affermando che sarebbe stato “breve e circonciso”. E invece, sullo stato della scuola e dell’istruzione in Italia ci sarebbe tanto da dire e, ancor di più, da fare.
L’Italia è, tra i Paesi avanzati, uno di quelli che investe meno nell’istruzione: il 5.5% del PIL, contro una media UE del 6.9% e una media OCSE dell’8.1%.
Spesa in istruzione in percentuale del PIL – dati OCSE (UE22 indica i paesi che fanno parte sia dell’Unione Europea sia dell’OCSE).
Tutto questo si traduce in strutture inadeguate e poco sicure, bassi stipendi per il personale docente e mancato turnover, a cui si aggiunge lo scarso aggiornamento del personale esistente.
Crediamo ancora nella scuola come strumento per la formazione del capitale sociale? La scuola ci aiuta ad ampliare i nostri orizzonti, ad aprirci e avere fiducia negli altri, a stimolare la nostra curiosità intellettuale ed a responsabilizzarci.
Studiare è un diritto ed al contempo un dovere.
“Lo studio è la spinta, lo strumento per l’apertura, l’interesse e il rispetto verso culture diverse, verso opinioni ed esperienze di altri”, affermava il Presidente Mattarella ricordando il giovane ragazzo maliano, morto nel Mediterraneo con la pagella cucita addosso. Lo studio è l’accreditamento verso il mondo: del lavoro, delle opportunità, della crescita personale. E forse sarebbe il caso di rivedere il nostro modello di welfare, strutturare un piano di investimenti, per garantire a tutti un’istruzione adeguata. Meno assistenzialismo, più servizi. Denaro che potrebbe essere utilizzato per rendere l’istruzione universitaria meno elitaria e per rendere le nostre scuole più sicure e tecnologiche.
È nell’interesse di tutti. L’istruzione non ha schieramento politico, ma lo stato di salute dell’istruzione è sintomo della salute del Paese. L’educazione è lo strumento principale per formare le nuove generazioni e renderle critiche, autonome, realizzate. Il nostro compito per le generazioni future è formare persone più competenti, più preparate, più ricche culturalmente: gli insegnanti assurgono ad un ruolo fondamentale in questo processo. Eppure una vera riforma che li premiasse per il merito e per la competenza non l’abbiamo mai vista. Non solo per colpa della politica, ma anche per le difficoltà di raccordo tra tutte le parti in causa: insegnanti, genitori, studenti, sindacati. Una riforma che riconosca la figura dell’insegnante, come figura di valore all’interno della nostra società, molto più di quanto non avvenga oggi nel nostro Paese.
Nel mese di settembre l’OCSE ha pubblicato il rapporto annuale “Education at a Glance 2018”, che offre una panoramica sullo stato dell’istruzione nel mondo, prendendo come riferimento alcuni indicatori chiave (livello di istruzione, performance scolastica, benessere sociale ed economico) dei Paesi membri e di alcuni Paesi partner dell’Organizzazione.
Il report lancia alcuni evidenti campanelli d’allarme.
Uno, ad esempio, riguarda l’età del corpo docente: il 58% degli insegnanti in Italia ha più di 50 anni, contro il 36% della media europea e il 18% del Regno Unito. D’altro canto, in Italia solo l’1% degli insegnanti ha meno di 30 anni, contro il 9% della media europea e il 26% del Regno Unito.
Quanto alla retribuzione, lo stipendio medio annuo di un insegnante in Italia è inferiore ai quarantamila euro, contro i cinquantamila euro in media dei colleghi europei e i settantamila euro dei colleghi tedeschi.
Questi numeri sono lo specchio della considerazione reale che si ha della figura dell’insegnante nel nostro Paese. La Varkey Foundation, un istituto internazionale di ricerca nel campo dell’istruzione, ha infatti posizionato l’Italia al 33esimo posto su 35 paesi analizzati, subito dopo il Ghana, in merito alla considerazione che la società dà alla figura degli insegnanti.
Tutto ciò ha chiaramente anche un impatto sugli studenti e sulle loro scelte: sebbene la percentuale di ragazzi che studia sia in linea con la media europea, la percentuale di NEET (chi non studia né lavora né segue corsi di formazione) è quasi il doppio.
Distribuzione tra studenti, impegati e NEET nella fascia di popolazione tra i 15 e i 29 anni – dati OCSE.
Questo dato è sintomatico della distanza che c’è nel nostro Paese tra il mondo dell’istruzione e il mondo del lavoro. Lo si vede dalla scarsa diffusione di strumenti come l’apprendistato di primo livello e dagli attacchi che l’alternanza scuola-lavoro ha ricevuto fino ad essere profondamente ridimensionata dopo la nuova Legge di Bilancio.
Lo slogan “siamo studenti non siamo operai” è anch’esso significativo del distacco tra istruzione e lavoro. Riconoscere l’importanza dell’integrazione tra i due mondi è fondamentale così come è fondamentale comprendere come l’istruzione, oltre a contribuire alla formazione dell’individuo in quanto tale, deve contribuire alla sua realizzazione nel mondo del lavoro.
Negli ultimi anni, l’avanzamento tecnologico ha reso le competenze tecniche sempre più marginali e sostituibili. La differenza la fanno quelle che oggi vengono chiamate “soft skills”, le competenze e le attitudini uniche e personali che ci distinguono come individui. Competenze che non si acquisiscono attraverso i testi scolastici, ma sono il frutto dell’esperienza diretta, dei fallimenti, e della capacità di imparare dai propri errori. Le norme possono essere migliorate ma ci sono (ad esempio, il Piano Nazionale scuola digitale), e bisogna investirci. L’alternanza scuola-lavoro avrà mostrato delle lacune (poca coerenza tra studi e attività lavorativa svolta, mancati controlli, gestione affidata alle singole scuole), ma il percorso è quello giusto e bisogna mantenere la rotta. Una rotta che, spesso, i nostri ragazzi non hanno a causa dell’eccessiva generalizzazione dei percorsi, che non tiene conto delle capacità e delle attitudini personali e che, a causa della mancanza di un adeguato orientamento, rende difficile la scelta del percorso di laurea, con conseguente perdita di tempo e di opportunità.
Dobbiamo rinnovare i programmi scolastici, introdurre la specializzazione dei percorsi, ridare valore alla figura dell’insegnante, e promuovere l’integrazione tra istruzione e mondo del lavoro. È una scelta politica, ma è anche una scelta sociale. Dobbiamo prenderne atto come cittadini e dobbiamo essere noi per primi, giovani, studenti, genitori, imprese, a chiedere a chi ci governa questo cambiamento.
È quello in cui noi di Yezers crediamo. Crediamo di poter dare un piccolo contributo per migliorare il Paese in cui viviamo, in cui siamo cresciuti, e che non vorremmo mai lasciare. Nel corso dell’ultimo anno abbiamo dedicato molte delle nostre risorse ad analizzare lo stato dell’istruzione in Italia. Questo studio ci ha permesso di individuare quali siano, a nostro parere, le criticità del modello scolastico italiano. A tal riguardo, stiamo formando ulteriori team di ragazzi per studiare delle proposte concrete a queste criticità, che presenteremo nei prossimi mesi. Con pazienza e dedizione possiamo migliorare questo Paese. Non lo farà nessun altro al posto nostro.
Jacopo Prejanò
Team Leader TdR Istruzione di Yezers
Andrea Romano
Referente Ricerca & Sviluppo di Yezers
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