Partiti e politici
Pd è il nuovo partito azienda: nessuna responsabilità, solo culto del capo
Il paradosso del partito-azienda di ventennale memoria fu scoprire che dei veri meccanismi aziendali aveva in effetti poco o nulla, riducendo merito, professionalità, risultati e produttività alla sola espressione di Silvio Berlusconi che lo aveva costruito in laboratorio a proprio uso e consumo. Dell’azienda, della vecchia azienda, manteneva solo il culto del Capo, intorno a cui muovevano pedine senza troppa anima e con nessuna autonomia. Nei trionfi e nei rovesci, il metodo era sempre conservativo e la sconfitta non portava mai a una risoluzione dei problemi, alla caduta di qualche testa, a uno smottamento aziendale come lo intendiamo in un’azienda moderna. In pratica nessuno mai portava qualche responsabilità, proprio perché a nessuno era concesso di averne, attribuendo al leader l’intera gamma dei sentimenti e delle volontà politiche del partito. Anche il lettore con più memoria, farà fatica a ricordare una testa tagliata da Berlusconi, al quale bastava semplicemente l’eterna fedeltà perché le situazioni rimanessero perennemente immutate. Corrado Guzzanti raffigurò l’immutabile Prodi come un lentissimo semaforo dove la vita e la politica scorrevano sempre uguali, ma con più senso della realtà avrebbe dovuto parodiare il Cavaliere. Il quale nella sua storia aziendal-politica mise alla porta soltanto uno dei suoi uomini più stretti e per via di una donna che aveva portato scompiglio all’interno della cupola fininvestiana: Vittorio Dotti e lei ne era la fidanzata, Stefania Ariosto.
Se c’è un aspetto che stordisce, il giorno dopo il tracollo del Pd, è esattamente questo riflesso berlusconiano, da pienissimo partito-azienda. Nessuno porta la minima responsabilità, perché nessuno ne ha. Perché nessuno ne ha mai avute da Matteo Renzi. Né intende pretenderle. Si vive sul senso di fedeltà assoluto. Si vive nel mito del Capo. Per rendersene conto, basta leggere cosa dicono i suoi due vice, la cui autonomia viaggia intorno allo zero. Serracchiani è da Cuore, non il libro ma l’inserto satirico dell’Unità: «Renzi ha detto che dopo il voto si occuperà del partito e lo farà. Quanto a me, ho sempre detto che non sono attaccata a nessuna poltrona». Invece che essere attaccatissimi alla poltrona, come sarebbe per ogni persona, per ogni manager, che tiene particolarmente al suo lavoro e che viene periodicamente “giudicato” dai capi, ci si difende con quel finto distacco ipocrita di cui conosciamo perfettamente i tratti. Non meno temerario il Guerini, l’altro impalpabile numero due, il quale respinge l’idea che «da alcuni voti locali (dice proprio così, “locali”, ndr)» si possa «fa discendere una valutazione di carattere generale». No, certo.
La questione che può decidere della sopravvivenza del Partito Democratico è esattamente il suo grado di autonomia. All’interno e all’esterno. Ed è una questione che può affrontare (e chissà se risolvere) soltanto Matteo Renzi, nessun altro. Mettendosi in gioco soprattutto con i suoi. Non è proprio «Renzi ai suoi» l’espressione con cui generosamente Filippo Sensi, il suo portavoce, distilla ai cronisti le segrete confidenze del premier ai collaboratori più stretti? Bene, ne faccia una sessione precisa, fuori da ogni velina. Ci si obblighi alla chiarezza, si dia una zona franca a ogni renzianissimo deputato o fido collaboratore, gli si conceda una manciata di minuti di verità, per cui impegnarsi a non far scattare alcuna rappresaglia. Si faccia dire delle cose in faccia, Renzi. Ne faccia tesoro, le selezioni, le valuti, le pesi. Potrebbero essere straordinariamente rivelatrici. Potrebbero restituire un clima, mettere in luce difetti, immaginare scenari. Portare un poco di buona aria fresca dentro quelle stanze malate.
È ancora in tempo il Pd per fare questo? Non ne siamo affatto certi. Un’operazione del genere dentro Forza Italia un tempo sarebbe stata impensabile. Il culto del Capo non prevedeva il minimo cedimento, ci vollero molti e molti anni perché qualche crepa emergesse e ciò derivò soltanto dalla debolezza del Cavaliere che poi generò qualche improvvido maramaldo. Non sappiamo sinceramente quante persone dentro il Pd – e qui ovviamente parliamo del Pd renziano – hanno la forza d’animo per vivere con il premier-segretario una sessione chiarificatrice. Per essergli utile e magari per essere ringraziati, un giorno. Quando parlano, si impegnano, appaiono in video, uomini e donne che gravitano intorno alla figura di Matteo Renzi sembrano come figurine stinte, dalla personalità dubbia anche se dall’eloquio svelto e sempre in linea. Proteggersi sempre con le proprie sicurezze, non lasciarsi mai sorprendere, è una condanna terribile. Se davvero ama il Partito Democratico, Matteo Renzi smetta di considerarlo come il suo partito azienda.
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