Partiti e politici
Pandemia, perché eravamo (e siamo) impreparati
Una ricostruzione con dati e fonti documentarie di un anno di gestione politica della pandemia ci porta alla conclusione che a spiegare opere e omissioni di un’intera classe politica di governo e di opposizione siano il dogma del pareggio di bilancio e il predominio degli interessi privati. Un problema che, aldilà delle responsabilità individuali e giudiziarie, è innanzitutto politico.
Ha suscitato un certo scalpore la notizia che i giudici di Bergamo si sono visto opporre dall’OMS il rifiuto di far testimoniare alcuni suoi collaboratori italiani nell’inchiesta sui morti della scorsa primavera. L’OMS ha rivendicato l’immunità diplomatica dei suoi collaboratori e inviato a parlare coi giudici Ranieri Guerra, direttore generale aggiunto dell’OMS ed ex alto dirigente del Ministero della Sanità. Guerra era stato accusato da un precedente servizio di Report del 2 novembre, “Virus e segreti di Stato”, di aver fatto oscurare dal sito dell’OMS un rapporto redatto dai ricercatori dell’OMS di Venezia, An unprecedented challenge. Italy’s first respond to Covid, che metteva in luce le lacune della risposta italiana alla pandemia e, soprattutto, le sue responsabilità per il mancato aggiornamento del Piano pandemico nazionale introdotto nel 2006, tre anni dopo l’epidemia di Sars, e mai più aggiornato.
Aldilà degli aspetti giornalistici e giudiziari la storia, il giorno dopo il nuovo record di vittime della seconda ondata e l’annuncio del nuovo DPCM di Natale, costituisce un’occasione per fare un bilancio del “governo della prima ondata” da parte del governo e delle istituzioni centrali, delle regioni e degli enti locali che è imprescindibile per capire come si è potuti arrivare alla seconda.
Piano pandemico, vecchio ma non solo…
I metadati del file PDF scaricabile dal sito del Ministero della Salute ci dicono che esso è stato creato nel 2006 e mai modificato, come del resto ci confermano il riferimento a uno stock di farmaci antivirali da completare entro il 2006 e l’assenza di cenni a eventi successivi come la pandemia del 2009 in Messico.
A ulteriore conferma qualche giorno fa il comitato dei parenti delle vittime nel bergamasco “Noi Denunceremo” ha prodotto una bozza di “Revisione del Piano Nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale, consistente in un documento in PDF (secondo il comitato la prima bozza è dell’11 aprile, ma è stato aggiornato durante la pandemia), una presentazione Powerpoint datata 11 aprile 2019 e un file excel “gruppi di lavoro” elaborato tra marzo e aprile del 2019. Secondo “Noi Denunceremo” è la definitiva conferma che al Ministero della Salute sapevano che il piano andava aggiornato. Per Robert Lingard, esponente del comitato, viene il dubbio che questi documenti siano filtrati ora “perché la Procura di Bergamo sta prendendo seriamente le accuse e c’è interesse di qualcuno a smarcarsi, fornendo le prove che al Ministero della Salute si era iniziato a fare qualcosa, ma poi non c’è stato il tempo di portare a termine il lavoro”. Del resto la slide 4 della presentazione, riprodotta qui di seguito, è chiara: un piano pandemico è per sua natura in continua evoluzione.
Si pensi al tema del tracciamento digitale con la app Immuni. Secondo un recente studio del CENSIS la percentuale dei possessori di smartphone in Italia nel decennio 2009-2019 è passata dal 15% al 73,8%. Nel piano pandemico del 2006 l’ipotesi del tracciamento digitale non è neppure contemplata, perché all’epoca in cui è stato redatto non c’erano le condizioni oggettive per realizzarlo. Il che significa che a marzo il Governo su questo tema ha dovuto improvvisare.
Ma basta leggere il piano per capire che il mancato aggiornamento non è il solo problema. Il documento infatti consiste in una serie di linee guida generali prive di concrete indicazioni attuative. Prendiamo le tabelle del capitolo 10, “Operatività per fasi e livello di rischio”. Comprendono quattro colonne: obiettivi specifici, azioni, responsabilità e stato di avanzamento. La prima cosa che salta agli occhi è che la quarta colonna è vuota. Significa che le azioni indicate nelle tabelle non sono state realizzate? Facciamo qualche verifica.
Misure per il periodo interpandemico (prima che scoppi il contagio).
a) “Costituire il Comitato Nazionale per la Pandemia”: non risulta alcun organismo con questo nome.
b) “Organizzare e/o condurre esercitazioni sul piano pandemico che includano tutte le istituzioni che saranno coinvolte nella risposta a una pandemia e utilizzare il risultato per migliorare il Piano e le attività di preparazione”: non abbiamo trovato traccia di esercitazioni.
Per i successivi quattro punti non c’è bisogno di commenti:
c) “Costituire, previo censimento dell’esistente, una riserva nazionale di: antivirali, DPI, vaccini, antibiotici, kit diagnostici e altri supporti tecnici per un rapido impiego nella prima fase emergenziale e, contestualmente, definire le modalità di approvvigionamento a livello locale/regionale nelle fasi immediatamente successive”.
d) “Operare una revisione della logistica e delle necessità operative per l’implementazione della strategia per la vaccinazione durante la pandemia (immagazzinamento, capacità di distribuzione, disponibilità della catena del freddo, centri di vaccinazione, necessità di personale per la somministrazione del vaccino)”.
e) “Verificare la disponibilità e le procedure di distribuzione dei DPI, degli antivirali e del vaccino per la protezione del personale a rischio occupazionale”.
Misure per il periodo di allerta pandemico (concreto rischio di pandemia)
f) “implementare la sorveglianza delle malattie respiratorie tramite survey (telefonate o questionari)”.
Insomma abbiamo preso sei delle azioni indicate nel documento e ci pare di poter affermare che per ciascuno di essi lo “stato di avanzamento” è effettivamente rimasto a zero.
Era impossibile fare diversamente?
Per farsi un’idea delle alternative può essere utile riprendere quanto avevamo osservato ne GliStatiGenerali140320 a proposito della strategia antipandemica di Taiwan, un’isola situata a circa 130 chilometri dalle coste della Cina continentale, con una popolazione di 23 milioni di persone, di cui 850.000 risiedono nella Cina continentale e 400.000 ci lavorano e con circa 3 milioni di turisti cinesi in visita ogni anno. Dall’inizio della pandemia, scoppiata – lo ricordiamo – alla vigilia del capodanno cinese, periodo di grandi flussi per trascorrere la festività in famiglia, nell’isola ci sono stati meno di 700 casi e 7 decessi. La strategia antipandemica di Taiwan ha quattro pilastri: ricerca attiva degli infetti, allocazione delle risorse (valutazione e gestione delle risorse), rassicurazione ed educazione dell’opinione pubblica e lotta alla disinformazione. Una dettagliata descrizione è stata fatta da tre studiosi della Stanford University, Jason Wang, Chun Y. Ng e Robert H. Brook, in Response to COVID-19 in Taiwan: Big Data Analytics, New Technology, and Proactive Testing (Journal of American Medicine Association, 3 marzo 2020).
“Lo Stato – spiegano gli autori dell’articolo – ha sfruttato il database nazionale dell’assicurazione sanitaria e lo ha integrato con gli archivi dell’immigrazione e della dogana, così da creare una mole di big data da analizzare successivamente. Inoltre ha attivato un sistema di segnalazione in tempo reale inteso a favorire l’identificazione dei casi, basandosi sui viaggi effettuati dai taiwanesi e sui sintomi clinici registrati nel corso delle visite mediche a cui sono stati sottoposti. Infine ha utilizzato nuove tecnologie come la scansione tramite codici QR e le tracce digitali degli spostamenti e dei sintomi di malattia per classificare il rischio-contagio di ciascun viaggiatore in base alla provenienza del suo volo e ai suoi itinerari negli ultimi 14 giorni. Alle persone con un basso rischio di contagiosità (nessun viaggio nelle zone classificate a rischio 3) è stata inviata via SMS un’autorizzazione sanitaria a passare il confine così da accelerare le pratiche per l’ingresso nel paese. Quelli con un rischio più alto (viaggio recente nelle zone a rischio 3) sono stati messi in quarantena a casa propria e controllati attraverso la traccia del loro cellulare per assicurarsi che rimanessero a casa nel periodo di incubazione.
Taiwan ha anche potenziato il monitoraggio del contagio ricercando attivamente i pazienti affetti da gravi sintomi respiratori (ricavandoli dal database dell’assicurazione sanitaria nazionale) e risultati negativi ai test per l’influenza e li ha sottoposti al test per il COVID-19: uno su 113 è risultato positivo. Il numero verde 1922 è stato messo a disposizione dei cittadini per segnalare sintomi e casi sospetti riferiti a se stessi o ad altri. Man mano che la malattia si espandeva questa linea ha saturato la propria capacità, per cui è stato chiesto a ogni città di creare la propria. (…) Il governo poi ha affrontato il problema del pregiudizio nei confronti delle persone infette fornendo cibo, frequenti controlli medici e incoraggiamento alle persone in quarantena. Il piano di risposta rapida include centinaia di modalità di azione”.
Per quanto riguarda la scuola “le autorità, dopo aver prolungato di 10 giorni le ferie invernali, hanno adottato una politica di restrizioni progressive in base ai casi accertati. Ad esempio se in una classe uno o più soggetti (alunni o insegnanti) risultano positivi le lezioni in quella classe vengono sospese per 14 giorni. Se ci sono due o più casi in classi diverse della stessa scuola, quest’ultima viene chiusa per 14 giorni. Se un terzo della scuole di un territorio vengono chiuse allora anche tutte le altre si fermano. Criteri analoghi sono stati introdotti anche per le altre istituzioni”.
Infine per garantire l’allocazione delle risorse “il 20 gennaio, a tre settimane dalla primissima allerta, il Centro di Coordinamento per le Malattie ha annunciato che il governo aveva accumulato una scorta di 44 milioni di mascherine normali, 1,9 milioni di maschere N95 e 1.100 stanze di isolamento a pressione negativa. Concentriamoci sulle mascherine. Il governo ha rifornito i venditori privati di mascherine a prezzo imposto (10 dollari per 50 pezzi); ha requisito stock di mascherine chirurgiche, vietato l’esportazione e coordinato la produzione di 4 milioni di mascherine al giorno da parte di aziende locali (1,4 agli ospedali e il resto alla cittadinanza), utilizzando anche forza-lavoro militare. Nel frattempo, nell’arco di un mese, ha installato 60 nuove linee di produzione della capacità di 100.000 pezzi al giorno, portando la produzione totale a 10 milioni. Nelle farmacie e nei negozi al dettaglio è stato imposto un limite al numero di pezzi per singolo acquisto in modo da evitare l’incetta e operazioni speculative, che peraltro sono state punite con pene fino a 7 anni di reclusione e multe equivalenti a 170.000 dollari (analoga durezza per chi ha diffuso notizie false sul virus). Mezzo di milione di mascherine è stato distribuito agli asili. Le farmacie convenzionate ne hanno distribuito gratuitamente 2 a settimana agli assistiti dietro presentazione della tessera sanitaria. Per la distribuzione a farmacie e ambulatori inoltre sono stati utilizzati 3.000 dipendenti delle poste statali”. Si tratta di una strategia contenente anche aspetti opinabili. Ma è una strategia con obiettivi, strumenti e procedure operative.
La pandemia era imprevedibile?
Una delle argomentazioni più utilizzate per giustificare l’impreparazione è stata che la pandemia era un’eventualità imprevedibile e che quindi il Governo si è trovato a gestire, primo in Europa, una situazione in cui era inevitabile essere impreparati. Ma è proprio così?
Da che esistono le compagnie di assicurazione al loro interno si trovano, per ragioni evidenti, i maggiori esperti di ogni tipologia di disastro, pandemie incluse. I Lloyd’s a Londra nel 2007 hanno creato un Emerging Risks and Research Team incaricato di anticipare le principali minacce che incombono sugli affari. Già nel 2008 in Pandemic Potential Insurance Effects i suoi ricercatori scrivono che “Una pandemia è inevitabile. Con un ritmo di ricorsività storica di 30-50 anni è prudente immaginare che in un qualche momento del futuro ci sarà una pandemia” e aggiungono che la Spagnola del 1918 potrebbe non essere il peggior scenario. Secondo il rapporto “ci sono parecchie ragioni per preoccuparsi che una grande pandemia possa affliggere il nostro mondo globalizzato più delle precedenti generazioni”, tra cui reti commerciali globali che possono essere veicolo di contagio, ma anche, insieme al just in time, concausa di strozzature nella fornitura di medicinali e dispositivi sanitari e inoltre la crescita della popolazione, dei viaggi internazionali, della concentrazione nelle aree urbane e della quota di popolazione costituita da soggetti malati e quindi immunodepressi. Non viene citata, invece, la diffusione di armi batteriologiche.
Nel 2016 Accapierre, società italiana di consulenze strategiche, dedica il numero di settembre-ottobre del suo bollettino Upside Risk al rischio pandemia ricordando che “la Banca Mondiale ha definito l’eventualità di pandemie: ‘uno dei maggiori rischi inassicurati ad alta probabilità di accadimento nel mondo di oggi’, stimando molto verosimile in un orizzonte temporale tra i 10 e 15 anni il rischio di sperimentare un evento pandemico globale capace di destabilizzare economie e società”. In uno degli articoli la situazione viene descritta in modo efficace: “Se consideriamo il rischio come il prodotto di danno e probabilità, data la certezza che una pandemia si verificherà in futuro, l’unica leva sulla quale è ragionevole provare ad agire è il danno, appunto. Il verificarsi di una pandemia in futuro è inevitabile, ma le conseguenze della stessa possono essere mitigate”.
Nel febbraio 2018 l’OMS introduce nell’elenco delle principali minacce sanitarie la “malattia X” un agente patogeno sconosciuto che potrebbe diffondersi tra gli uomini e scatenare una pandemia. L’11 marzo 2019 l’OMS lancia il Global Influenza Strategy 2019-2030, un piano per migliorare la preparazione dei paesi ad affrontare influenze stagionali e potenziali pandemie influenzali. Il rapporto pubblicato per l’occasione contiene un’affermazione perentoria del direttore generale dell’OMS: “La minaccia di una influenza pandemica è sempre attuale (…) La domanda non è se avremo un’altra pandemia ma quando”. Un mese dopo all’interno del Ministero della Salute italiano, come si è visto, qualcuno metteva mano a un nuovo piano pandemico nazionale.
Il 25 febbraio scorso un gruppo di ricercatori italiani dell’Istituto Sacco, tra cui l’ormai notissimo Massimo Galli, pubblica sul Journal of Medical Virology un articolo intitolato Early phylogenetic estimate of the effective reproduction number of SARS‐CoV‐2, da cui, analizzando 52 genomi del virus messi a disposizione il 4 febbraio, deducono che “La ricostruzione temporale della filogenesi del SARS-CoV-2 ottenuta in questo studio è in linea con le precedenti stime e suggerisce che l’epidemia abbia avuto origine tra ottobre e novembre 2019, parecchie settimane prima che fossero riportati i primi casi”. Il 10 febbraio Galli aveva dichiarato: “La malattia da noi difficilmente potrà diffondersi. L’esiguità del numero di casi riscontrati fino ad adesso e la modalità in cui si sono manifestati in persone che si sono infettate poco prima di partire da Wuhan ci dà la dimensione del contenimento complessivo della problematica” (SanitàInformazione100220).
Dal 18 al 27 ottobre 2019 a Wuhan si svolge la settima edizione dei Giochi Mondiali Militari, una sorta di olimpiade delle forze armate. Vi partecipano quasi 10.000 atleti provenienti da tutto il mondo, tra cui 165 italiani (più una trentina di accompagnatori), assistiti da un esercito di circa 230.000 assistenti volontari reclutati tra la popolazione locale. Ai primi di maggio la stampa internazionale annuncia che la Francia teme che il covid-19 sia stato importato involontariamente dagli atleti francesi rientrati dalla Cina. Il 7 maggio anche il campione di scherma azzurro Matteo Tagliariol racconta di essere stato ammalato insieme a tutti i suoi compagni di stanza con sintomi tipici del coronavirus e tuttavia precisa di non poter confermare di essere stato contagiato non essendo stato sottoposto a test. Nessuno degli atleti europei tornati da Wuhan, infatti, viene sottoposto a test o quanto meno non vengono resi pubblici i risultati. Tra novembre e gennaio 2019 poi nel milanese, a Como, nel bergamasco e a Piacenza si registra un’impennata di casi di polmoniti “anomale”.
Mettiamo in fila i fatti
Dagli elementi che abbiamo elencato, attingendo a fonti che non ci sembrano tacciabili di “complottismo”, ci pare si possano trarre alcune conclusioni logiche politicamente rilevanti su quanto è successo a cavallo tra il 2019 e il 2020 e foriere di ammonimenti anche per il futuro.
1. Lo Stato era impreparato
Come si è detto che il piano pandemico non sia stato aggiornato è confermato dalla semplice lettura e dal fatto che tra marzo e aprile dell’anno scorso qualcuno, non si capisce se per iniziativa propria o su indicazione politica, si sia messo in moto per redigerne uno nuovo. E ci vuole una bella faccia tosta per affermare che bastava averne uno e non era necessario aggiornarlo, come se le pandemie fossero l’unico ambito su cui 15 anni di innovazione tecnologica non hanno avuto alcun impatto. Ma il vero punto è che quel piano del 2006 oltre che non aggiornato appare in larga misura inattuato. Del resto quando si compila una raccolta di indicazioni generiche e copia incolla di frasi tratte dai documenti dell’OMS è abbastanza chiaro che l’obiettivo non è darsi una strategia, ma dimostrare di avere fatto i compiti. E in quell’ottica è anche comprensibile che aggiornarlo ogni anno sia stata considerata una perdita di tempo.
2. Una pandemia era nell’ordine delle cose
Come si è visto organismi internazionali, dall’OMS alla Banca Mondiale, e compagnie private in tema di pandemia da anni affermavano che una pandemia ci sarebbe stata e si trattava solo di vedere quando, anche se diversi fattori concorrevano a suggerire che probabilmente sarebbe successo in termini relativamente ravvicinati. Del resto rientra nelle funzioni degli Stati mantenere costosi apparati in vista di eventi possibili anche lontani nel tempo. Persino la Svizzera mantiene un esercito in caso di guerra. Certo, si può obiettare che la previsione di una pandemia può essere alimentata dai produttori di farmaci e vaccini, la cui influenza sull’OMS è stata riscontrata da soggetti come il British Medical Journal, il Bureau of Investigative Journalism e il Consiglio d’Europa. Ma che gli allarmi siano soltanto fruto delle pressioni di Big Pharma ci pare davvero troppo e, soprattutto, sarebbe bizzarro pensare che per 15 anni i governi italiani siano stati guidati da tesi “complottiste”.
3. Dopo Wuhan il Governo ha minimizzato
Pur sapendo di essere impreparato (o forse proprio per questo) il Governo, anche dopo che si è diffusa la notizia dell’epidemia a Wuhan ha continuato a diffondere messaggi rassicuranti. Per citare il solo Conte:
“Siamo prontissimi (…) L’italia in questo momento è il paese che ha adottato misure cautelative all’avanguardia rispetto agli altri e ancora più incisive. Da questo punto di vista abbiamo adottato tutti i protocolli di prevenzione possibili e immaginabili” (27 gennaio);
“La situazione è assolutamente sotto controllo” (Conte, 4 febbraio);
“Non dobbiamo ipotizzare in questo momento scenari drammatici, sono fiducioso perché gli esperti dicono che le misure sono efficaci e daranno risultati” (25 febbraio);
“L’Italia è un Paese sicuro, in cui si può viaggiare e fare turismo. Ci sono solo aree limitatissime con restrizioni; forse è un Paese più sicuro di tanti altri” (25 febbraio).
Il 25 febbraio, quattro giorni dopo il primo positivo a Codogno e il primo decesso in Veneto, tre giorni dopo l’istituzione delle prime 10 zone rosse e il giorno dell’allargamento delle misure di contenimento alle prime 5 regioni, è il giorno in cui viene pubblicato il citato studio dei ricercatori del Sacco. Il 25 febbraio, dunque, il Governo ha tutti gli elementi per sapere che il virus circolava a Wuhan tra ottobre e novembre, che alcuni atleti militari (quindi dipendenti dello Stato) probabilmente l’avevano contratto, che a Wuhan stava accadendo qualcosa di strano. Ma soprattutto che per alcuni mesi prima dell’adozione di qualsiasi misura tra l’Hubei e l’Italia si era circolato liberamente. Così come tra la Francia e gli altri paesi che avevano inviato i propri atleti ai giochi militari e l’Italia. Dunque il pericolo del contagio non era rappresentato solamente da chi nelle settimane precedenti aveva avuto contatti con persone provenienti dalla Cina.
Eppure in quei giorni e nei successivi l’intera politica spinge esattamente in direzione di un allentamento delle misure di contenimento: in alcune regioni si parla già di riaprire le scuole, il governatore Fontana afferma: “Cerchiamo di sdrammatizzare, è una situazione difficile ma non tanto pericolosa. Il virus è aggressivo nella trasmissione ma non nelle conseguenze. E’ poco più di un’influenza e questo lo dicono i tecnici” (25 febbraio), a Milano il sindaco Sala lancia l’hashtag “Milano non si ferma” e Zingaretti accorre a immolarsi per la causa, il sindaco di Bergamo Gori si fa fotografare in pizzeria con la moglie e invita i bergamaschi a fare shopping nel weekend e per incentivarli dispone che il trasporto pubblico in quei giorni sia gratis.
4. La spiegazione è economica
Questi avvenimenti non possono essere spiegati come meri atti individuali, ma si inquadrano nei dettami di una politica economica fatta di tagli alla spesa pubblica e predominio degli interessi economici delle imprese. Il citato Global Influenza Strategy calcola in 4,5 miliardi di dollari l’anno il costo della prevenzione delle epidemie influenzali, un fardello che graverebbe sui bilanci pubblici violando il dogma del pareggio. Per quanto riguarda l’Italia la bozza del nuovo piano pandemico solo per il capitolo personale prescrive di: “sviluppare piani di personale minimo a livello di struttura per la gestione dei servizi e delle funzioni essenziali, come indicato nei piani di continuità operativa delle strutture sanitarie; elaborare piani di personale a livello dei struttura per finanziare i servizi sanitari previsti in caso di pandemia; stimare il fabbisogno di personale aggiuntivo e identificare i ruoli che possono essere supportati da personale di chirurgia o da volontari; sviluppare procedure per il reclutamento e la formazione del personale addetto alle emergenze”. Ma un mese prima della stesura della bozza la Ragioneria Generale dello Stato aveva pubblicato un rapporto secondo cui dal 2009 al 2017 il personale del SSN ha perso 46.500 addetti, pari al 6,2%. Solo in termini di costo del lavoro significa un taglio di circa 2,5 miliardi di euro l’anno.
Veniamo agli interessi privati. Dietro le dichiarazioni e gli hasthag tranquillizzanti della politica tra fine febbraio e marzo c’è la pressione delle aziende. Prendiamo proprio il caso di Bergamo. Confindustria lancia #bergamoisrunning e pubblica un video in inglese in cui rassicura che “Le attuali indicazioni del governo italiano dicono che il rischio di infezione è basso” (Youtube280220, da vedere). Il presidente Stefano Scaglia un mese dopo se la caverà a buon mercato ammettendo che è stato un “errore”. I sindaci di Alzano e Nembro (rispettivamente Lega e PD) ricevono telefonate dagli imprenditori preoccupati dalla possibilità dell’istituzione della famosa “zona rossa”. Tra questi il titolare della Persico di Nembro, l’azienda costruttrice di Luna Rossa, dove Renzi nell’ottobre 2014 era andato a presentare il Jobs Act, atteso in fabbrica dall’assemblea di Confindustria Bergamo al gran completo. Secondo una testimonianza che abbiamo raccolto a marzo “quando l’Italia ha bloccato i voli diretti con la Cina, le aziende hanno continuato a far fare avanti e indietro ai propri dipendenti, facendo fare loro scalo a Mosca o a Bangkok. Perciò quando tornavano non risultavano in arrivo dalla Cina e non venivano sottoposti ai controlli né registrati. Tutti lo sapevano. Nelle fabbriche se ne parlava e la gente era preoccupata, ma nessuno è andato ad autodenunciarsi alle autorità sanitarie per timore delle conseguenze” (GliStatiGenerali250320). Forbes scrive che l’Italia “a febbraio nel punto più alto dell’epidemia spediva gente a fare la spola con le fabbriche di prodotti tessili nella provincia dell’Hubei” (Forbes220320).
Secondo uno studio di Promos Italia e della Camera di Commercio Milano Monza Lodi e Brianza nel 2018 gli interscambi commerciali tra Lombardia e Cina ammontavano a 17,6 miliardi di euro, il 40% del volume d’affari a livello nazionale, una crescita di oltre il 10% rispetto all’anno precedente. Se guardiamo alle province tra le prime dieci si piazzano Milano, prima con 8 miliardi (+12%), Lodi, seconda con 2,3 miliardi (+20,4%) e poi Bergamo, con 1,4 miliardi (+7,1%), Monza Brianza (+10%) e Brescia (+8%). “Chiudere quell’area – dichiarava Agostino Miozzo del CTS a Repubblica lo scorso settembre a proposito delle mancate zone rosse ad Alzano e a Nembro – significava fermare un polmone economico del paese. Forse avremmo salvato qualche vita, ma è facile sentenziare col senno di poi’.
Oggi, mentre le persone muoiono di nuovo a grappoli, in quelle e in migliaia di altre fabbriche e aziende si continua a lavorare, stavolta senza alcuna limitazione. Di questo però non parla nessuno. Sembra che i contagi possano avvenire ovunque tranne che nei posti di lavoro. A proposito, tra le tante norme del piano pandemico che non ci risultano attuate ci eravamo dimenticati di citare questa: “definire i protocolli per la sorveglianza sentinella dei tassi di assenteismo lavorativo e scolastico in alcuni siti selezionati (es. grandi fabbriche, allevamenti avicoli e scuole ubicati in diverse aree del paese)”.
L’articolo è tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 4 dicembre.
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