Partiti e politici
Oscurare il casino Raggi & Berdini era dura, gli eroi del Pd ce l’hanno fatta!
Diciamocelo: non era facile. Ci vuole del talento e del metodo. Un campione “lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”, cantavamo pensando alla leva calcistica che diede i natali tra gli altri a Paolo Maldini: e i nostri eroi del centrosinistra italiano, in effetti, di fantasia ne hanno da vendere, e di sicuro anche di altruismo, se dovessimo almeno prendere sul serio la valutazione di chi ci guadagna e di chi ci perde, dal casino di questi giorni, che in un nonnulla sono anni e ti ritrovi vecchio e demotivato. Perché nel marasma colloso che hanno disegnato attorno al dibattito che li riguarda, e che ci riguarda per definizione, di sicuro non ci guadagnano loro, ed è per definizione giusto così.
Capita, infatti, che il calvario della Giunta di Virginia Raggi proprio in questi giorni conosca un nuovo paradigmatico passaggio. Esce dalla lista della giunta anche Paolo Berdini, l’ultimo “nome forte” ancora presenta in squadra, dopo le uscite dei tecnici di alto profilo e gli arresti di qualche amico al bar, dopo il fango colato a litri tra chat pubblicate e parole smentite e però registrate. Se ne va, il professore di Urbanistica di tendenza radical, sbattendo la porta e accusando mezzo mondo. Di fatto confermando che Raggi and C. sono a suo giudizio inadeguati, ma anche parlando fuori dai denti dello stadio, della grande operazione di “speculazione edilizia” a cui sarebbe di fatto stato sacrificato, cioè il nuovo stadio della Roma di cui era oppositore. Ora, per il pd romano sarebbe in effetti stato complicato attaccarsi alla questione stadio per fare un po’ di sana opposizione, che il progetto “romanista” nasce sicuramente dalle parti del centrosinistra, coinvolge cordate imprenditoriali amiche (il costruttore Parnasi è lo stesso che aveva a suo tempo edificato la nuova sede della provincia), e soprattutto c’è mezza città che lo stadio lo vuole, anche perché Totti ha detto che ci vuole.
Però ecco, stadio a parte, diciamo che partendo da un po’ di sana autocritica per il destino riservato al proprio ultimo sindaco, giubilato assecondando le forche grilline, e senza troppo fare i fighi che appunto bisogna anzitutto ammettere gli errori fatti in un passato recente e fresco, gli amici del centrosinistra, della sinistra, della sinistra interna al Pd, quelli della maggioranza pd e quelli della minoranza, i renziani e il loro contrario, gli scetttici che lo sostengono ancora e gli ex entusiasti che lo considerano già la peste, avrebbero potuto lasciare per un giorno almeno l’onore della prima pagina al casino romano combinato dai grillini. E sempre senza fare i fighi, potrebbero usare proprio la capitale come tavola di lavoro silenzioso per rigenerare una classe dirigente e attirarla a sè – “il meglio del meglio di Roma”, per dirla proprio con Berdini – per il futuro della capitale e dell’Italia. Saremo distratti, sicuramente lontani dalle mille pratiche di buona politica che il centrosinistra sta sicuramente attuando, ma non abbiamo notizia di questo.
Abbiamo notizia, invece, del casino inestricabile in cui sta precipitando il Pd, trascinando con sé quel poco che resta del centrosinistra italiano al di fuori del suo proprio (e apparentemente sempre più angusto) confine partitico. Per sommi capi: Renzi vuol tirare dritto, dimettersi da segretario al più presto per risolvere al più presto la vacatio a proprio favore, non lasciando il tempo agli avversari interni di riorganizzarsi e di trovare il bandolo di una matassa invero parecchio aggrovigliata. Il suo sogno è votare a giugno, al più tardi a settembre, dopo essere stato nuovamente incoronato dal popolo del pd. Cosa fa il governo Gentiloni nel frattempo, espressione diretta del partito di cui comunque è il leader? Non sembra affare di Renzi, che pensa soprattutto a votare presto, e a vedersi confermato come leader. È davvero convinto di poter vincere le elezioni? Ha capito almeno un po’ cos’è successo nel paese che l’ha visto duramente sconfitto il 4 dicembre? Ha capito che è stato sconfitto il 4 dicembre? Non sembra un problema suo, il suo problema è riprenderesi al più presto partito e comando, e andare a cercare la terza giovinezza elettorale.
Di contro, anche i suoi avversari “interni” pongono questioni che sicuramente stanno molto a cuore al paese reale. Chiedono un’assemblea programmatica prima del congresso, poi un congresso “ordinato”, che si iscriva dentro a un’orizzonte di legislatura che duri fino a scadenza naturale con Gentiloni premier, spiegano proprio oggi Michele Emiliano Roberto Speranza ed Enrico Rossi, echeggiando il Bersani che evidenzia una “scissione già nei fatti”. In teoria, “da sinistra”, ci si aspetterebbe che prima venga decisa e declamata l’agenda di governo, si spieghi con rigore quali sono gli obiettivi politici da perseguire, con che mezzi, seguendo quali strade. Due parole due su come consolidare la ripresina, ad esempio, che una rondine non fa primavera. O su come riordinare diritto del lavoro e settore scolastico, per citare appena due gangli sensibili, due veri e propri nervi scoperti, lasciati in eredità dal grande avversario Renzi. Sarebbe normale attendersi insomma che da chi contesta da sinistra la linea del segretario ci fosse una chiara preminenza dei temi di struttura da cui discendono, per forza di cose secondari, quelli riguardanti i calendari e le organizzazioni di partito.
E invece, e invece per loro come per Renzi, per quel che resta insomma di un partito che non ancora compiuti i 10 anni sembra già decrepito, o forse così vecchio ci è nato, la sensazione sia che il regolamento di conti interni sia ormai sfuggito di mano a tutti, e che alla fine della contesa non ci sarà posto per entrambe le famiglie – lasciamo stare le correnti, che testimoniano con il loro numero esorbitante l’ormai acclarata insufficienza della famiglia tradizionale – nella stessa casa. Fuori dalla casa, peraltro, l’ordine regna sovrano, almeno lì. Il Campo progressista di Pisapia, un’esperienza che potrebbe dire la sua e pesarsi forse in maniera seria all’interno di primarie di coalizione che al momento è difficile immaginare, si muove stretto su un sentiero angusto: spigoli di roccia da un lato e burroni dall’altro. Si fa presto a dire: “daremo voce e metteremo in rete le migliori realtà del paese”, ed è sicuramente un tentativo rispettabile, quantomeno perché prova a ripartire dalla società. Già, ma con quali mezzi, con quale prospettiva? Con quali compagni di viaggio, visto che fuori dal Pd, la maggioranza di chi c’è già e la totalità di quelli che potrebbero arrivare a breve con Renzi non vogliono più nemmeno bere un caffè, mentre l’ex sindaco di Milano fa del rapporto con il pd un asset naturale? E cosa succederebbe invece qualora – scenario meno probabile – a perdere la battaglia interna fosse Renzi, e a vincere fossero gli altri, magari guidati dal ministro della giustizia Andrea Orlando? Un Pd più tradizionalmente socialdemocratico lascerebbe campo al centro, ma quanto a sinistra, dove insiste Pisapia?
Insomma, le idee sono tante e sembrano tutte abbastanza confuse. Sarà difficile, andando avanti di questo passo, spiegare a qualunquisti e antipolitici che la politica non la si improvvisa, che è una cosa seria, che il dibattito interno è il sale della vita e meno male che c’è. Il rischio di sentirsi dire “guarda a casa tua”, per il povero militante del Pd, è piuttosto elevato. Il caso (statisticamente probabile, ahinoi) che se ne vada urlando insulti alla controparte, poi, chiuderebbe il cerchio: una volta l’egemonia la coltivavano i nipotini di Gramsci, oggi è riuscita agli adepti di Grillo, e senza nemmeno sapere cos’è. Egemoni a loro insaputa, e non è nemmeno penalmente rilevante.
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