Partiti e politici
Operazione Moratti, come perdersi e perdere in un colpo solo
Gli interventi di Ferruccio de Bortoli e di Nando Dalla Chiesa a favore di un sostegno del centro-sinistra alla candidatura di Letizia Moratti per la presidenza della Regione Lombardia mi hanno lasciato basito.
L’operazione porterebbe, al tempo stesso, al suicidio definitivo di ciò che resta della sinistra italiana e ad una sicura catastrofe elettorale. La sinistra verrebbe annichilita dimostrando di essere arrivata al capolinea di quel lungo processo involutivo che da molti anni la sta portando a sostituire progressivamente la politica con la tecnica. Sarebbe la certificazione che non esistono più ideali, progetti, identità e visioni alternativi, ma una pura e semplice lotta per il potere condotta mettendo in campo persone tra loro intercambiabili.
Un grande calciomercato elevato a modello della competizione sedicente politica, nel quale volta per volta si ingaggia il giocatore che si considera più promettente per vincere il campionato. E, così come non crea problemi di sorta il fatto che la “punta” che oggi veste la maglia dell’Inter magari pochi mesi prima indossasse quella della Juventus, così non dovrebbe provocare scandalo che un leader della coalizione di destra possa prendere improvvisamente la guida della coalizione di sinistra, senza passare dal via.
Perché, sia chiaro, di questo si sta ragionando, non di “alleanza” come qualcuno sta dicendo per indorare la pillola. Nelle Regioni il sistema è presidenziale, dunque si tratterebbe non già di aggregare la Moratti dentro un cartello con una mossa spregiudicata ma tatticamente anche possibile, bensì di incoronare quella che fino a ieri era la Vicepresidente della giunta Fontana a frontwoman e guida del centro-sinistra in Lombardia.
La deriva, come si diceva, non è nuova. Mentre il centro-destra da quasi 30 anni incrementa costantemente i propri caratteri identitari, fino a configurarsi da ultimo come un destra-centro, la sinistra procede in senso opposto, cancellando via via qualsiasi collegamento con le sue varie radici storiche (“è finito il ‘900”) e proponendosi sempre più spesso non come alfiere di un proprio progetto di società, ma come garante di una gestione soltanto più affidabile (per l’establishment) di una sorta di programma unico di sapore efficientistico.
Il punto di drammatica accelerazione di questo processo si è avuto nel 2021 con il passaggio dal governo Conte2 al governo Draghi, non per nulla fortemente voluto da Renzi dentro il lucido disegno di applicare al Pd il “trattamento Macron”, quello che ha ridotto l’antico partito socialista francese ad un fantasma. Si impose allora nel dibattito pubblico un confronto completamente de-politicizzato, all’insegna della domanda retorica “meglio Draghi o meglio Conte?”, oppure “non mi dirai che preferivi Conte?”, con annesso risolino di compatimento. Con rare eccezioni, si faceva sparire dalla scena il merito politico della questione: governo politico o governo semi-tecnico e di unità nazionale? Si faceva sparire il dato che il Conte 2 era stato l’esperimento più progressista da molti anni a questa parte, con un tasso mai visto (nella seconda repubblica) di autonomia da Confindustria, dai giornaloni e dal mainstream della UE; si pensi alla priorità data alla coesione sociale durante la pandemia, al blocco dei licenziamenti, alla battaglia vittoriosa per una prima mutualizzazione del debito in Europa, ecc. E si faceva sparire la gravità del ritorno nel governo di forze di destra squalificate e irresponsabili, che fino all’ultimo avevano lisciato il pelo ai no-vax e si erano dedicate ad una demagogia distruttiva, anziché farsi carico anche dall’opposizione dello sforzo di salvezza nazionale, come invece era avvenuto in altri Paesi.
Niente; solo calciomercato, o meglio ancora asettica selezione sul mercato del miglior amministratore delegato per una grande azienda. Quando poi la parentesi si è chiusa ed è tornata la politica, guardacaso il Pd è rimasto imbambolato a rimirare l’inesistente agenda Draghi, mentre l’unica forte opposizione ha trionfato con l’agenda sua propria. Non stupisce che i dioscuri macroniani incitino il Pd a seguitare su questa strada, come nella vecchia barzelletta: siamo sull’orlo del baratro, facciamo un passo avanti! Ma che lo facciano anche esponenti dello stesso Pd e insospettabili intellettuali progressisti è qualcosa che fa pensare a una forma acuta di cupio dissolvi.
Quanto all’utilità elettorale dell’ipotizzata “mossa del cavallo”, delle due l’una: o la candidatura di Letizia Moratti a presidente della regione ha la potenzialità di spaccare in profondità il centro-destra, staccando una quota rilevante dell’elettorato che prima votava da quella parte, o non ce l’ha. Nel secondo caso l’operazione sarebbe fallimentare, una pura e semplice donazione di sangue e di organi. Il centro-sinistra perderebbe una fetta rilevante di elettori di sinistra e sarebbe sconfitto ancora più rovinosamente del solito, per giunta evaporando sotto le insegne di una regina straniera. Questo è lo scenario più probabile perché l’elettorato del centro-destra lombardo è fedele, non ha mai premiato le scissioni e, da quando esiste l’elezione diretta del presidente, non ha mai eletto un candidato di Milano (e anche nella prima repubblica l’unico milanese importante alla guida della Regione fu il primo presidente, Piero Bassetti, quasi mezzo secolo fa).
Ma anche nel primo caso, se si vuol fare in modo che davvero la Moratti conquisti quegli ipotetici voti di scontenti di centro-destra, l’unica cosa che non si deve fare è proprio candidarla come centro-sinistra. Questo è un dato elementare, che non può sfuggire a chiunque conosca la politica lombarda: se la ex sindaca di Milano venisse targata come rappresentante del centro-sinistra la sua capacità attrattiva verso l’elettorato della sua area di provenienza sarebbe subito azzerata. Non a caso i giornali della destra si sono immediatamente scatenati con titoli urlati: Letizia è passata con la sinistra.
In un contesto ostile come la Lombardia e con un sistema maggioritario a turno unico, è lapalissiano che le uniche (limitate) possibilità del centro-sinistra di tornare competitivo nel breve periodo sono legate ad una eventuale gara a tre, con l’elettorato di destra che si divide in due tronconi, tra Fontana e Moratti. Solo così un’alleanza larga che mettesse insieme Pd, M5S e altri gruppi minori, avrebbe sul serio un’opportunità. Questa sarebbe la vera mossa del cavallo; l’altra è la mossa dell’asino.
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Foto di copertina: Letizia Moratti – @Bruno Cordioli
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