Partiti e politici
Oltre la gaffe. Chi era Luca Boneschi e perché Di Maio ha fatto una figuraccia
D’accordo, Luigi Di Maio ha fatto una gaffe. Un’altra. Una delle tante, all’indomani della pessima figura sulla vicenda dei Canadair, con l’eroica scenetta di lui che – durante una diretta serale su Facebook – pubblicizzava la sua missione telefonica: l’aspirante Premier a cinque stelle raccontava di aver telefonato alle ambasciate dei Paesi al confine con l’Italia, per sollecitare l’arrivo di aerei spegni-fiamme da dirigere in Campania. Gli aerei li mandò in effetti la Francia, ma su richiesta della Protezione Civile. Non certo per merito di un mai palesatosi Di Maio: smentita ufficiale e sputtanamento a mezzo stampa, social, agenzie.
A ruota segue dunque la nuova figuraccia. Meno grave (forse), ma assai significativa. Di Maio si cimenta con un discorso pungente – ancora una volta dinanzi a una webcam – puntando il dito contro le lungaggini che starebbero vanificando l’iter legislativo per la soppressione dei vitalizi degli ex parlamentari (quelli dei neo eletti sono già stati aboliti nel 2012, sostituiti da regime pensionistico contributivo). Nessuna proposta concreta per aggirare gli ostacoli costituzionali e burocratici – ha denunciato Matteo Richetti, primo firmatario del provvedimento in esame – ma il solito “scandalismo” urlato sui social.
Ed ecco il Vicepresidente della Camera citare con disprezzo alcuni beneficiari delle laute somme, tra i simboli residui della “casta”: dall’avvocato Taormina a Ombretta Colli, da Ilona Staller a Vittorio Sgarbi. Senza considerare che “un certo Boneschi si è fatto un giorno in parlamento: prende 3.108 euro”. Così ha detto. Pigliandosela – inconsapevolmente – con un morto. Il deputato è infatti scomparso nell’ottobre del 2016 e il vitalizio, com’è ovvio, non lo prende più. Epic fail e nuova ondata d’ironia sul web.
IL SENSO DI UNA GAFFE
Ora, il punto non è la svista sul defunto (se pur imbarazzante). Il punto, semmai, riguarda un certo modo di fare, una certa cultura del sensazionalismo e della superficie, uno stile riconoscibile che i “meravigliosi ragazzi” del Movimento (e non solo loro) hanno contribuito a radicare. Nella solita furia accusatoria gonfia di antipolitica, nella missione salvifica dei novelli populisti – tutta roba che ormai è venuta a noia, quasi una macchietta – a scomparire è ciò che sta al di là. Oltre la foga, il dissenso compulsivo, l’epica da spietati controllori. Oltre la sostanza, il senso delle cose, la misura, la prospettiva. E la memoria.
Chi era Boneschi? Di Maio non lo sapeva: non sapeva se era vivo, morto, perché era stato in Parlamento un solo giorno e che cosa aveva fatto nella vita. Per carità, può succedere di ignorare qualcosa che riguarda da vicino il tuo lavoro, il tuo mondo, le battaglie che conduci. Ma informarsi non sarebbe forse una buona pratica, un valore, una necessità? E invece no, chi se ne importa. Quel che conta è stare nei tempi rapidi di un’uscita Facebook e infilare un’accusa dopo l’altra, un piagnisteo, un’invettiva livorosa, uno scandalo a tavolino. Roba che smuove consensi e che nelle segrete stanze di una cabina di regia aziendale, in quel di Milano, diventa strategia elettorale.
Luca Boneschi resta un nome tra i nomi, anzi un numero. Un piccolo caso citato en passant, per rimpolpare la lista dei privilegiati da dare in pasto agli haters. Eppure, Boneschi – senza entrare nel merito del tema ‘vitalizio’, ottenuto per legge e tramite legge abrogabile, come si sta giustamente provando a fare – porta con sé una storia, una biografia, un racconto d’impegno politico e professionale. Che meritavano rispetto.
VITA, MORTE E BATTAGLIE DI UN RADICALE
Stimato avvocato milanese, era stato esponente di spicco del Partito Radicale fin dal 1956. Le parole migliori per ricordarlo sono quelle che gli dedicarono, un anno fa, gli amici dell’Associazione lombarda dei Giornalisti: “Luca ci ha lasciato dopo aver combattuto con coraggio una battaglia contro il male che lo aveva aggredito: l’ultima delle tante che ha sostenuto nella vita con coraggio e determinazione, come quelle che aveva condotto in prima persona negli anni della resistenza democratica nella stagione delle stragi di Stato. Grande amico di Camilla Cederna, ne aveva curato più volte la difesa. Era stato anche il primo avvocato di Pietro Valpreda dopo il suo arresto quale presunto responsabile della strage di Piazza Fontana. Aveva lavorato a lungo anche alla vicenda legata alla morte di Pinelli. Da sempre rigoroso antifascista, aveva poi militato nelle fila del Partito Radicale, del quale era stato deputato nel corso della VIII legislatura. Costante è stato il suo impegno civile, continua la sua attenzione ai diritti dei più deboli. Noi lo ricordiamo per essere stato da sempre al nostro fianco, a difendere i diritti dei giornalisti milanesi”.
Citato oggi come anonimo personaggetto arraffa soldi, beffeggiato in pubblico per quei (pur assurdi) 3.108 euro, Boneschi era in realtà il classico figlio di una borghesia colta, engagé, progressista, liberale e libertaria, tutto preso dalla lotta per i diritti civili, contro i nuovi fascismi e le oscure trame di Stato. Dai processi che coinvolsero i ragazzi del movimento studentesco, scesi in piazza nel ’68, alla tragica vicenda dell’anarchico Pinelli; dalla difesa di Valpreda, poi assolto nel processo per Piazza Fontana, all’assassino di Roberto Franceschi, studente della Bocconi colpito alle spalle da un proiettile nel 1973, mentre fuggiva dalle cariche della polizia: una lunga storia di impegno etico e di battaglie per la verità, in pieno esprit radicale.
QUANDO BONESCHI SCRIVEVA A NILDE IOTTI. IL CASO GIORGIANA MASI
Fino ad arrivare allo storico processo Masi – così simile, nelle dinamiche, al caso Franceschi – e alla fulminea esperienza in Parlamento: eletto nelle liste di Pannella nel maggio del 1982, rimase in carica per il tempo record di 24 ore. Si dimise infatti immediatamente, con una lettera indirizzata all’allora Presidente della Camera Nilde Iotti:
“[…] Da molti anni io assisto, insieme all’avvocato e deputato Franco De Cataldo, la famiglia di Giorgiana Masi, la ragazza uccisa durante una carica della polizia sul Ponte Garibaldi di Roma il 12 maggio 1977: una famiglia che ha creduto di potersi rivolgere alla magistratura per avere giustizia almeno morale di fronte alla morte atroce e assurda di una figlia e di una sorella amatissima. Ho messo le mie capacità professionali a loro disposizione. Ben quattro anni è durata l’indagine: troppe cose più urgenti assillavano il giudice. E, al termine dell’istruzione, il giudice ha archiviato: tecnicamente, ha dichiarato non doversi procedere per essere ignoti gli autori del fatto. Una decisione a mio giudizio altrettanto assurda dell’assassinio di Giorgiana, poiché le modalità della carica, della sparatoria e della morte sono purtroppo assai semplici: ma il giudice ha decretato che gli assassini sono senza volto, senza nome e anche senza appartenenza; sono «sciacalli ignoti».
Oggi pende da molti mesi una istanza di riapertura di quel processo, sempre davanti ai giudici romani che hanno sempre troppe altre cose da fare. Ma, fuori dagli strumenti professionali veri e propri, io mi sono ribellato a quella decisione, e ho criticato pubblicamente il giudice e le altre autorità implicate nella vicenda. Il giudice si è offeso e mi ha querelato. Così, finalmente, nella vicenda giudiziaria per l’assassinio di Giorgiana Masi c’è almeno un imputato noto: l’avvocato della famiglia. Questo processo è già iniziato, ma non concluso, anche se la sentenza è vicina: e io non voglio in nessun modo ritardare a un giudice, e a me stesso, il diritto ad avere giustizia. Sapendo, per esperienza professionale, che i meccanismi delle autorizzazioni a procedere non sono né certi né rapidi, scelgo di non metterli neppure in moto.
Con una speranza: che questa mia non semplice né facile rinuncia serva a ricordare, ai radicali e ai non radicali, che per Giorgiana Masi giustizia non è stata fatta; che in qualche cassetto del Parlamento giace da tempo una proposta di legge per una Commissione d’inchiesta sui fatti de l 12 maggio 1977 che sarebbe — a mio modestissimo parere — gravissimo se non venisse approvata e presto; che, di fronte alla bancarotta della giustizia e all’oblìo della politica, a me resta quest o modo per dire — con amore per la giustizia e la politica — la mia solidarietà a Vittoria, Aurora e Angelo Masi”.
TRA INFAMIA E MEMORIA
Boneschi, con gesto nobile, rinunciò così all’immunità parlamentare e affrontò il processo per diffamazione: quello penale finì nel nulla grazie a un’amnistia, mentre quello civile si chiuse nel 2008. Condannato dopo 25 anni di contesa, l’avvocato pagò il suo debito: 35mila euro, di cui 18 solo per spese processuali.
La famosa commissione d’inchiesta per Giorgiana Masi, intanto, non ebbe luogo. Nessuna luce fu fatta su quel disgraziato 12 maggio e su quel rovente sit-in pro referendum, indetto dai radicali, non autorizzato da Cossiga (ai tempi Ministro dell’Interno) e ugualmente voluto da Marco Pannella. Quest’ultimo, a quattro ore dall’incidente, pronunciava un sorprendente discorso alla Camera, avendo sentore di tragedia (un mese prima, durante uno scontro tra militanti di destra e di sinistra, era stato ucciso l’agente Settimio Passamonti) e richiamando lo Stato alle sue responsabilità. Il morto ci fu davvero, aveva appena 18 anni e la sua innocenza non trovò mai il sollievo della verità.
Stoico difensore della vittima, convinto delle colpe delle forze dell’ordine, Boneschi paradossalmente fu l’unico a pagare in quest’assurda vicenda. E sui giornali – nonché sul volume di Mario Giordano “Sanguisughe” – ci finì poi per via di quel vitalizio-lampo, additato come uno degli squallidi politici scrocconi. Un professionista che aveva spesso lavorato pro bono e per solo amore; un uomo onesto, rigoroso, con un senso alto della giustizia, che rinunciò alla carriera di parlamentare e che alla famiglia Masi, in tutti quegli anni, non chiese mai alcun compenso; uno che – come ha scritto il giornalista Concetto Vecchio nel suo bel libro-inchiesta sull’omicidio di Ponte Garibaldi (“Giorgiana Masi: Indagine su un mistero italiano”, Feltrinelli, 2017) – “bruciava di passione civile”.
Ma tutte queste cose, Luigi Di Maio, non le sapeva e non era interessato a scoprirle. Per la sua diretta Facebook bastavano quei 3.108 euro: buoni da gettare nel mucchio per alzare un nuovo polverone. Buoni per marchiare a fuoco chi, fra le altre cose, nemmeno poteva difendersi più.
E risuonano, severe, le parole di Corrado De Martini, consigliere della Fondazione Calamandrei, rivolte alla memoriadi Boneschi, che dell’Istituto romano fu co-fondatore e Presidente: “Personalmente oggi piango la perdita di Luca, e mi sento un sopravvissuto. Non solo perché Luca ci ha lasciati (ed anche l’altro fondatore Ugo Sandroni non è più con noi); ma anche e soprattutto perché l’aspirazione ad una società più giusta in tutti i sensi e la passione e l’impegno profuso nel tentativo di costruirla, che hanno animato gli anni più intensi della vita di Luca (ed in fondo anche la mia), si sono dissolti in un clima di liti da cortile, dove impera l’egoismo, il settarismo e l’arrivismo, se non il malaffare”. Qualunquismo, ignoranza, populismo, a completare la triste fotografia.
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