Partiti e politici

Occhetto e l’eclissi della sinistra: «Per risorgere capisca di essere in cenere»

27 Ottobre 2018

“Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di identità politiche vaghe e nebulose, lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano”. (Antonio Gramsci, 1921)

Stupisce per attualità – se ancora ci fosse da stupirsi dell’attualità di Gramsci – la citazione scelta da Achille Occhetto per raccontare il passaggio sotto le bandiere fasciste di larga fascia di proletariato a pochi anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale, nel suo ultimo libro dal titolo “La lunga eclissi. Passato e presente del dramma della sinistra” (Sellerio editore). Opera importante, di cui colpisce la lucida urgenza non solo nel ripercorrere la storia fino ai giorni nostri, ma nell’attualizzare il racconto per lanciare nuovi spunti in vista di un “risveglio della sinistra”.

L’ex segretario che traghettò i comunisti italiani nel nuovo millennio, è reduce da un’altra piccola svolta, un trasloco in cui ha dovuto traslare in altri spazi i ricordi e le esperienze di una vita vissuta intensamente altrove. Nel nuovo appartamento, in una tranquilla via del centro di Roma, opere di Gramsci, di Togliatti, di Lenin, foto di gatti e una collezione di pipe: tutto quello che, in fondo, ci si aspetterebbe dalla casa di uno storico dirigente del Partito Comunista Italiano. Sopra il divano, tre pannelli, di probabile manifattura orientale, con fenicotteri ricamati. Chissà se sono lì a ricordo di quegli antichi militanti del Partito, soprattutto donne, che diffondevano la stampa clandestina durante il fascismo, se sono doni risalenti alla cena che nel 1969 sancì la rottura tra i comunisti italiani e i compagni cinesi (il racconto di quell’incontro è uno degli aneddoti più gustosi del libro), oppure se la loro presenza su quella parete sia casuale, come accade a tanti oggetti che trovano dimora solo in seguito a un lungo compromesso domestico. Risuona strana l’assonanza tra una nuova casa che va acquisendo la sua personalità e una sinistra che appare senza fissa dimora e da troppo tempo smarrita.

Ci sediamo sul divano, Occhetto prepara con minuzia il tabacco per una pipa di legno scuro e risponde alla prima domanda che mi ero appuntato prima che abbia il tempo di fargliela. Resto in silenzio, perché in quei primi minuti non sono ancora al mio presente di giornalista alle soglie dei quaranta, ma ho sedici anni, dei capelli lunghissimi che scendono disordinati lungo il mio spolverino nero, la kefia, il basco perduto alla manifestazione del 2002 in difesa dell’articolo 18; e lui è il Segretario.

«Ho iniziato a scrivere il libro in vista del trentesimo anniversario del crollo del muro di Berlino, previsto per il prossimo anno, perché quei giorni hanno segnato la fine della politica del Novecento. Volevo anche celebrare l’anniversario della Bolognina, di cui rivendico l’altezza culturale e la capacità di previsione degli eventi che sarebbero seguiti di lì a poco. Mi riferisco in modo particolare a un testo che allora non fu letto: la “dichiarazione di intenti”, in cui prefiguravamo temi che oggi sono incredibilmente attuali. Mentre scrivevo, però, sono stato raggiunto dalle notizie allarmanti della débâcle del Socialismo e delle sinistre in tutta Europa e della pesante sconfitta elettorale in Italia. Ho avuto un “grido di dolore” che riassumo in una frase del libro: “La sinistra è un’araba fenice che può risorgere dalle proprie ceneri solo se è consapevole di aver raggiunto lo stato di cenere”».

Non è di un crollo, però, che parla il Segretario, ma di un’eclissi: «Sono convinto che la sinistra sia entrata in un cono d’ombra dal quale spero possa uscire. In questo periodo tutti dicono – a ragione – che il Partito Democratico non ha fatto un’analisi della sconfitta e non ha elaborato nessuna prospettiva. Penso, invece, che nel mio libro ci siano entrambe, sia un’analisi della crisi profonda della sinistra in Italia e in Europa, sia il tratteggio delle linee di un possibile risveglio. C’è però un’avvertenza: non si può dire come si deve uscire dalla crisi se non si è capito bene come ci si è entrati. Per questo i riferimenti storici tendono a sovrapporsi all’attualità: sono questioni strettamente collegate tra loro».

A guardare indietro, non si può non tornare ai primi anni Novanta: tra il ’90 e il ’91 si svolgono, infatti, il XIX e il XX congresso del PCI gli ultimi due del partito nato nel 1943 come evoluzione del Partito Comunista d’Italia. Il 31 gennaio 1991 nasce il Partito Democratico della Sinistra, ma si consuma anche una scissione con il “fronte del no” guidato da Armando Cossutta, che vede schierati contro l’avvio del nuovo corso figure di primo piano del partito come Natta, Bertinotti, Garavini e Ingrao. Quest’ultimo, mentre gli applausi dei delegati salutavano l’ultimo discorso di un segretario del PCI, andò ad abbracciare un Achille Occhetto stremato, che di lì a poco scoppiò in un pianto entrato nella storia della politica. «Ingrao? Si congratulò soltanto. Quelle lacrime erano liberatorie: era finito il congresso, il mio discorso era stato accolto in modo trionfale e pensavo di aver interrotto per sempre quella lotta fratricida che ci logorava da tempo. Mi sbagliavo, perché iniziava il vero malato scontro interno arrivato fino ai giorni nostri. All’epoca alcuni mi accusarono di aver liquidato il Partito Comunista, ma – al di là delle emozioni del momento – sarebbe bastata po’ di intelligenza per capire che il Comunismo era morto nel mondo intero senza bisogno della svolta di Occhetto. A meno che non volessero un partito come quello coreano…».

 

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Che il PCI era diverso dagli altri partiti comunisti europei era però il mantra di tutti i suoi dirigenti: «Non era solo il Partito Comunista ad essere diverso. Tutti i partiti italiani sono nati da uno stesso ceppo: la loro comune partecipazione al Comitato Nazionale di Liberazione, quindi dalla resistenza e dal comune impegno nella scrittura della più bella Costituzione d’Europa. In secondo luogo, il sistema politico italiano era profondamente diverso da tutti gli altri: da noi erano fondamentali il dialogo e lo scontro all’interno di un sistema proporzionale, cosa che non c’era in gran parte delle altre realtà europee. Infine, mentre in Italia le istanze di un Socialismo democratico sono state accolte – a netto di ingenuità e storture – anche dal Partito Comunista Italiano, negli altri paesi sono tutte state solo appannaggio delle forze socialdemocratiche. Questo ha determinato un cambiamento notevole di clima, di spirito di lotta e di tematiche della battaglia politiche».

Non è alla svolta, d’altronde, che si può imputare la disgregazione del partito: «Il declino era già iniziato da molto tempo e la rappresentazione in stile amarcord di un PCI forte e unito è del tutto falsa. A dimostrazione che qualcosa si era già intaccato da tempo basta pensare a quante volte Berlinguer era stato in minoranza, soprattutto sulla questione morale. Proprio in merito alla questione morale, fu sostenuto con convinzione solo da una parte di noi. Le vicende successive hanno dimostrato quanto quell’appello non fosse stato accolto abbastanza».

Leader spesso isolato, Berlinguer, all’interno del suo partito, eppure idolatrato dalle masse, soprattutto dopo la sua scomparsa: l’onda emotiva che ne seguì lo trasformò presto in un simbolo, sdoganando in breve molti dei suoi “salti in avanti” anche tra i dirigenti del partito e facilitando le scelte più coraggiose che sarebbero arrivate dopo, fino alla svolta concretizzata da Occhetto. Non a caso, nel libro è riportato un dialogo informale risalente al ’69, quando, Berlinguer ipotizza un cambio di nome del partito e ne discute con un giovane Occhetto, allora segretario regionale della Sicilia.

«Non so dire se la sua morte abbia accelerato quel processo. Certo è che la svolta nacque dalla riflessione che feci in seguito al crollo del muro di Berlino: si trattava di un evento di portata storica che avrebbe cambiato il mondo e la logica della battaglia politica. Sfido chiunque a dire che non fosse giusta e sono quasi certo, conoscendolo, che Berlinguer avrebbe avuto la stessa intuizione. E sarebbe stato molto più bello se avesse fatto lui la svolta, perché era dotato di un carisma e di una forza tale che probabilmente l’avrebbe fatta meglio».

Confesso che mentre Achille Occhetto pronunciava quest’ultima frase mi sono quasi commosso e non pensando a Berlinguer, scomparso quando io avevo appena cinque anni. Mi sono commosso perché in un tempo in cui la politica è monopolizzata da scadenti e arroganti personalismi, ho ascoltato un politico (in politica non esistono “ex”, semmai si può parlare di politici in attività e non) che parlando di ciò che lo ha fatto finire sui libri di storia ha detto: “lo avrebbe fatto meglio un altro e sarebbe stato più bello”.

Bolognina rivendicata con forza, anche alla luce dei tanti tarli che hanno corroso il Comunismo molto prima del 1989: «Mi fanno ridere quelli che dicono che Occhetto ha ammazzato il Comunismo: è stato Stalin ad ammazzarlo, non Occhetto. Pensare che “il fine giustifica i mezzi”, secondo la massima erroneamente attribuita a Machiavelli, porta a giustificare la tortura in URSS, a teorizzare la guerra atomica come strumento necessario per la vittoria del Comunismo, come voleva il Partito Comunista Cinese. L’internazionalismo era altro: un’idea bellissima, un movimento di solidarietà internazionale che agiva a prescindere dalle frontiere, il cui motto “lavoratori di tutto il mondo unitevi” prevedeva che ognuno combattesse la sua battaglia sulla base delle condizioni che trovava sul proprio terreno, basandosi sulla propria cultura e sulle proprie tradizioni. Tutto questo è stato sostituito da Stalin con la politica dei due campi, ovvero con la contrapposizione tra i paesi del blocco socialista e quelli del blocco capitalista; un concetto che distrugge l’internazionalismo alle sue stesse basi: i cinesi si scontrano con i sovietici per avere l’egemonia all’interno dello stesso campo. Si trasforma in un lotta diversa, non più di massa, non più sociale, non più socialista; soltanto geopolitica».

E il PCI per anni, prosegue Occhetto, è stato nettamente schierato con Stalin: «Era un partito bifronte: veniva dalla Resistenza e aveva assorbito idee liberali e democratiche, ma doveva subire i limiti di uno schieramento mondiale che – a mio parere – non era più socialista da tempo. Nel contesto del dramma interiore dei comunisti, che da un lato pensavano cose che fuoriuscivano dai limiti del Comunismo internazionale e dello stalinismo e dall’altro dovevano giustificare l’ingiustificabile. Si era così creata una sorta di “mistica della sconfitta”: “dobbiamo perdere perché il mondo è cattivo”. Nel libro ho approfondito molto questo concetto. Sostenere che le repubbliche popolari, sistemi polizieschi dove si praticava persino la tortura, fossero socialiste significa insultare il Socialismo. Basta osservare l’evoluzione di gran parte dei paesi che facevano capo al blocco sovietico: com’è possibile che abbiano educato tanto male i loro popoli da farli votare, oggi, tutti a destra? Dov’era il Socialismo? Gorbaciov stesso è stato sconfitto perché voleva portare in Russia un Socialismo democratico: il popolo russo non era maturo, non era stato realmente educato agli ideali del Socialismo. E oggi c’è Putin».

Non si limita a questo, però, la disanima degli errori commessi dalla sinistra: «Uno dei più gravi? Governare con le idee degli altri; meglio perdere con le proprie idee. Avere una posizione silente o subalterna nei confronti del liberismo e delle politiche di austerità ha fatto sì che si smarrisse la vocazione sociale della sinistra e con essa il rapporto con il popolo. La crisi del capitalismo datata 2008 avrebbe, almeno sulla carta, dovuto portare a una reazione da parte della sinistra; paradossalmente, invece, la risposta arriva da destra e dai populisti e gran parte delle forze socialiste europee sono giudicate corresponsabili delle politiche liberiste».

 

 

Accade così che populisti e sovranisti pongano questioni giuste a cui danno però soluzioni errate: «Quando la Le Pen, per nominarne una, sostiene che non c’è più sovranità nazionale, finanziaria ed economica, dice una cosa giusta. Sbaglia, però, quando ritiene di poter ritrovare quella sovranità all’interno dei vecchi confini nazionali. Il mondo – e in particolar modo l’Europa  – si trova oggi a dover fronteggiare una crisi della sovranità e quindi una crisi della democrazia che porta in sé una crisi della politica e – a cascata – a una crisi della sinistra. Bisogna ridare sovranità senza trincerarsi dietro ai confini nazionali, ma sulla strada della democratizzazione della globalizzazione a  livello sovranazionale. A un movimento dei capitali, sovranazionale, deve rispondere un movimento altrettanto sovranazionale delle forze democratiche».

Le prossime elezioni europee? «Se la battaglia sarà tra chi difende l’Europa dai “vecchi spalti” e chi la vuole cambiare in modo distorto, la partita sarà già persa in partenza. A questo proposito, il messaggio che vorrei oggi lanciare ai dirigenti del Partito Democratico e a quelli di tutti i partiti della sinistra è che lo scontro non deve essere tra chi difende e chi vuole cambiare, ma tra due cambiamenti diversi: un cambiamento insano, come quello che vuole Salvini e che porterebbe a un’accozzaglia di nazioni rissose, contro un cambiamento dell’Europa nella direzione dei suoi principi fondatori, che è quella degli Stati Uniti d’Europa».

Non sembra molto interessato, Occhetto, alle questioni interne al PD: «Pur condividendo molte cose giuste presenti nel discorso del Lingotto di Walter Veltroni, penso sia stato sbagliato il presupposto. Per avere un partito in grado di articolarsi in modo molto aperto e anche rischioso con una grande quantità di gruppi che hanno una loro autonomia, serve che ci sia un fondamento. Per questo continuo a sostenere che il punto di partenza debba essere quella di una “costituente delle idee”: se non si mettono come base della discussione i fondamentali che uniscono le persone che a loro volta si uniscono in partito, non si può poi pretendere che quel partito disgregato ideologicamente, idealmente e politicamente, possa aprirsi all’esterno e dialogare con altri. Prima è necessario definire ciò che si è. Nel PD questo non è accaduto: il vizio di fabbrica è stato non accettare una contaminazione tra i diversi per arrivare a una sintesi più alta, preferendo, invece, una “fusione a freddo” di apparati. E recentemente c’è stata anche una “scissione a freddo” di apparati, quindi l’elemento ideale non c’è stato né nel momento di fusione, né nel momento di scissione. Il PD è partito con il piede sbagliato, ovvero con le primarie. Però, se si organizza una competizione tra candidati senza prima definire cosa li unisca, è normale che chi perde dal giorno dopo sia il principale nemico di chi ha vinto. In questi mesi si è tornato a parlare di unità della sinistra. Ritengo non si possa fare unendo i cocci di un vaso che si è rotto. Questo vale sia per il Partito Democratico che per la cosiddetta sinistra radicale. Mi ripeto: è indispensabile un’autodefinizione, ovvero una costituente delle idee».

Ed è proprio in nome delle idee che il Segretario si tira fuori dal tiro a segno che ha caratterizzato la vita del partito in seguito al 4 marzo: «Sono molto al di fuori del dibattito su Renzi, sugli amori e sugli odi che suscita, sia perché non mi sono mai iscritto al PD, sia perché non ho mai votato per lui. Quindi non lo odio e penso, anzi, che l’acredine sia stata talvolta eccessiva. È un errore oggi farne la causa di tutti i mali, come è stato sbagliato considerarlo una specie di Dio in terra dopo quella famosa vittoria col 41% alle europee. Fin dall’inizio ho visto però tutta la sua debolezza interna, che è un fatto politico e non personale. Nella pars destruens aveva ragione su molte cose, dal bisogno di rinnovamento dei vecchi meccanismi della politica fino alla necessità di cambiare molti dei personaggi responsabili della crisi già in atto. La sua visione della pars costruens, invece, era arretrata di almeno vent’anni: si muoveva ancora su dei concetti vaghi come la democrazia della Silicon Valley o sul fatto che non contassero più la destra e la sinistra ma che lo scontro fosse tra cambiamento e non. Questo gli ha dato una visione che non guardava alla società italiana in tutte le sue pieghe e quindi anche alle sue sofferenze, allontanandolo da quel popolo che ogni giorno vive quelle sofferenze».

Negli ultimi tempi, il motivo più alto di scontro all’interno del fronte del centrosinistra si è registrato in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. A differenza di quanto accadeva nei partiti storici, i dirigenti si sono scontrati a suon di interviste sui giornali, dichiarazioni, post sui social network. Al di là del risultato e degli errori dei singoli, l’immagine offerta non è stata certo delle migliori. «Un tempo c’era il centralismo democratico che aveva certamente dei limiti ma anche un enorme pregio: c’era la fedeltà totale e assoluta al Partito. Per questo si poteva anche combattere furiosamente dentro, ma poi ci si presentava all’esterno con lo stesso volto. Questo era il segreto della forza del Partito Comunista. Negli anni del terrorismo la sinistra ha risposto agli attacchi con una battaglia unitaria delle forze democratiche e del sindacato, quindi una reazione popolare di massa. Quella che non vedo oggi di fronte alle cose blasfeme che si dicono contro la Costituzione. Lungi da me discutere oggi le ragioni e i torti del sì e del no allo scorso referendum costituzionale, anche io ero molto critico verso quel tipo di riforma, che comunque – va detto – non avrebbe cambiato un granché. Mi chiedo però dove siano oggi tutti quei “santoni giuristi” che allora dichiararono che sarebbe arrivato un sistema autoritario, che la vittoria del sì sarebbe stata la fine della Costituzione, che amavano la Costituzione più dei loro genitori. Mi chiedo dove sia quel “fronte del no” mentre Grillo attacca l’istituzione della Presidenza della Repubblica, mentre Salvini ogni giorno mina a fondo le ragioni della Carta. Dove sono oggi i vari Zagrebelsky e Davigo? Io credo che questo sia una dimostrazione di come la sinistra ami di più le proprie idee, i propri pregiudizi, le proprie divisioni interne, rispetto alla lotta contro la destra. E questo mi fa schifo».

Parlare delle responsabilità e degli errori dei singoli, insiste, è assai poco produttivo: «La questione vera è indagare le difficoltà del rapporto della sinistra con una realtà in cui sono cambiati tutti i parametri del Novecento. Non abbiamo più lo stesso quartiere, la stessa fabbrica, gli stessi modi che hanno le persone di entrare in contatto tra loro nel processo produttivo ed è quindi naturale che non possiamo avere più gli stessi partiti e gli stessi sindacati di un tempo. Bisognerebbe capire come inverare gli obiettivi storici della sinistra nelle nuove condizioni del mondo».

Nel libro c’è spazio anche per l’ambientalismo e la salvaguardia del pianeta, per il riformismo cosmopolita e per il cyberspazio, una realtà dove le persone entrano in rapporto tra loro attraverso mezzi nuovi, come i social network, capaci di influenzare pesantemente l’opinione pubblica. Nel cyberspazio ci sono però delle questioni aperte, come l’utilizzo degli algoritmi per fini commerciali e politici, la diffusione delle fake news, la tutela della privacy: «Nel capitolo “Democratizzare il cyberspazio” ho parlato molto dei pericoli legati agli algoritmi che oggi vengono affrontati con due soluzioni che trovo entrambe sbagliate. Da una parte c’è la loro privatizzazione, ovvero lasciare la potenza di calcolo nelle mani di un pugno di potenti, a questa visione si è opposta quella russa e cinese, che ha portato a una statalizzazione degli algoritmi. Bisognerebbe tornare invece a quella che fu la vocazione iniziale della Silicon Valley, quella dei primi fondatori di questo processo, ovvero dei giovani democratici che venivano dalle lotte studentesche e immaginavano una democrazia diffusa».

Un ritorno alle origini, una rinascita dalle ceneri: «Serve un nuovo mondialismo democratico pacifista ed ecologista, specialmente in un tempo in cui tanto forti appaiono pulsioni nazionaliste, tribali e contrarie allo sviluppo della scienza. La sinistra deve far capire alla gente che esistono almeno tre grandi emergenze planetarie: l’emergenza ecologica, perché siamo vicini alla distruzione del pianeta, l’emergenza provocata dalle grandi migrazioni bibliche e l’emergenza della ferita profonda delle diseguaglianze. Nessuna di queste può essere affrontata da un solo paese, da una sola regione o da un solo continente: la guerra contro di esse deve essere planetaria. Non capirlo dimostra che, malgrado la scienza e la tecnica a disposizione, l’uomo sta regredendo all’età della pietra, da un punto di vista culturale, politico e di consapevolezza di se stesso. È questo il grande dramma di questo momento storico; è questo che potrebbe provocare eventi catastrofici».

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