Partiti e politici
Non un solo leader ma molti “broker”
Non esiste scorciatoia. Non è sostituendo un capo con un altro capo che le forze progressiste si salveranno l’anima, che è in fiamme. Non dal 4 di marzo, ma almeno dagli anni 80, quando è definitivamente saltato il patto sociale, il sistema di regolazione che nel dopoguerra ha generato – insieme alla crescita economica – la mobilità sociale e la redistribuzione di ricchezza, anche con conflitto, verso i ceti medi e quelli meno abbienti.
La questione è epocale e non riguarda l’Italia soltanto, ma tutti i paesi democratici ad economia matura.
Senza voler trattare il tema nella sua dimensione di creazione e redistribuzione di valore (cosa che avviene sempre meno, se si pensa che le più grandi coorporation dei nostri tempi detengono maggior ricchezza degli Stati) vale la pena concentrarci almeno sulla dimensione sociale e politica che queste trasformazioni hanno generato.
La più macroscopica delle quali è l’indebolimento di quei meccanismi e di quei corpi intermedi che erano in grado di garantire un collegamento o una mediazione politica e sociale tra parti consistenti della società e le funzioni di governo, non solo politico, del Paese. Il meccanismo che ha consentito a tanti operai, lavoratori, professionisti, cittadini di scalare posizioni di responsabilità nella vita pubblica o in quella sociale ed economica attraverso la partecipazione a organizzazioni collettive nell’impresa, nel sindacato, nel partito, nelle associazioni, nel terzo settore.
L’idea del governo “disintermediato” ha presto mostrato la corda: non solo non è riuscito a rimuovere incrostazioni e rendite di posizione delle vecchie corporazioni, ma tanto meno è riuscito a produrre nuova mobilità per i “disintermediati”.
Negli ultimi due decenni, di fianco alle vecchie organizzazioni sociali in crisi (sindacati, associazioni di categoria, vecchie lobbies), si sono fatte avanti embrionali nuove forme organizzative di comunità che a volte hanno preso la forma di imprese sociali, organizzazioni del terzo settore, reti solidali atipiche. Nel linguaggio della Commissione Europea vengono definite con il termine di “innovazione sociale”e fortemente spinte nel mandato di Juncker. L’obiettivo è stabilire una demarcazione dall’innovazione solo tecnologica o tecnoscientifica, che di per sè e da sola non è in grado di assicurare Inclusione o redistribuzione – e viene affidato addirittura a questa forma di innovazione l’immane compito di fare da argine alle spinte populiste ed antieuropeiste.
Con gli amici dell’associazione Innovare X Includere l’abbiamo definita Innovazione Inclusiva.
In questi anni abbiamo mappato e accompagnato pratiche e politiche pubbliche in grado di generare o sostenere questa forma di innovazione che oggi è oggetto di una crescente letteratura sul tema.
Imprenditori sociali, organizzatori di comunità, nuovi cooperatori, artigiani digitali, designer di nuovi servizi hanno rappresentato, specie nelle aree urbane ma non solo, gli ufficiali di collegamento tra comunità territoriali e lavorative e policy makers. Questo almeno quando la buona politica li ha voluti vedere, riconoscere, associare in un disegno di governo del territorio. E questo non perché le “pratiche partecipative” nell’ultimo decennio erano molto à la page (certo, c’è stato anche questo), ma perché risultava conveniente per la stabilità e l’efficacia dei governi, soprattutto quelli locali, rendere corresponsabili delle decisioni altri attori in una logica bottom up.
A partire dagli anni 90 l’hanno fatto le destre, quando sono riuscite a rappresentare ceti produttivi che non erano contemplati nello schema tradizionale che contrapponeva grande capitale VS lavoro e l’ha fatto il ventennale dominio Formigoniano della Lombardia utilizzando il braccio economico-sociale di cdo e cielle.
In maniera più virtuosa questa relazione si è sviluppata negli anni 2000 attraverso pratiche partecipative di molte amministrazioni locali di centro sinistra, da sud a nord del Paese, e Milano oggi ne rappresenta il caso di maggior successo e durata, anche di fronte agli ultimi risultati elettorali.
Senza la capacità di associare parti di società in un progetto di governo nessun risultato elettorale, anche quello più sorprendente e netto, può rivelarsi duraturo. Ne abbiamo avuto dimostrazione negli ultimi anni, con leadership molto acclamate ma che sono durate il tempo di un mattino.
Questa è la prova che aspetta anche i due grandi vincitori di queste elezioni, il M5S e la Lega. Verificheremo nei prossimi mesi se il loro successo sia una variante del plebiscitarismo disintermediato, che ha visto sovente il “popolo” voltare velocemente le spalle ai propri leader, o se si tratta di un consenso che poggia su quadri sociali, organizzatori di territorio e di comunità (anche virtuali) in grado di garantire un collegamento stabile tra le persone nei loro luoghi di vita e di lavoro e i leader o i governanti.
In attesa di vedere come andrà a finire la storia, al PD – partito cui insieme ad altri ho deciso di aderire nel momento della sua massima difficoltà – conviene mettersi alla ricerca non di un nuovo capo dalle sperate virtù taumaturgiche, ma di nuovi “broker” sociali, quadri intermedi, organizzatori di territorio e di comunità che siano in grado di stabilire un collegamento durevole e non episodico tra i luoghi dove si fa la società e quelli dove la si interpreta e si prendono le decisioni. Possibilmente attingendo proprio da costoro per costruire una nuova leadership collettiva.
In questi anni di governo della città di Milano di queste figure ne abbiamo incontrate tante, sia nelle vecchie organizzazioni che cercano di rigenerarsi, sia nei nuovi luoghi della produzione e della società: innovatori sociali, coworkers, nuovi attori del commercio, della cooperazione, del lavoro cognitivo, rappresentanti delle comunità dei nuovi cittadini italiani. Un ceto di “non rentier”, dotato di un buon capitale relazionale e anche culturale ma di reddito discontinuo. È per questo alleato naturale dei ceti lavorativi più tradizionali, in crisi di identità ancora prima che di salario.
Abbiamo vinto quando siamo riusciti a metterli nelle condizioni di co-decidere le politiche pubbliche insieme a noi. Abbiamo perso quando abbiamo pensato di poterli semplicemente “rappresentare”.
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