Partiti e politici
Nell’azienda Pd, il sogno di Renzi è avere anche dissidenti “felici”
Quando le posizioni sono inconciliabili, soprattutto in campo aziendale, è il denaro sostanzialmente a comporre le questioni, a esercitare il suo fascino perverso anche sulla volontà delle persone, a determinarne vittorie e sconfitte, a rompere definitivamente rapporti ormai consumati. Gli uomini si sono piegati alla logica del denaro da tempo immemorabile, identificando nella monetizzazione una delle vie più virtuose e risolutive per chiudere vicende intricate, evitando così i tribunali. Altrettanto spesso, le condizioni di forza sono disequilibrate, essendoci un soggetto particolarmente forte e uno particolarmente debole, così che le questioni del lavoro, nella storia, hanno trovato elementi terzi di partecipazione attiva e di controllo come i sindacati. Oggi che il sindacato è visibilmente in crisi, soprattutto per sue responsabilità, il lavoratore non ha più molto da trattare.
Ci si può anche chiedere quanto delle dinamiche industriali, che nel tempo assumono la forma compiuta del conflitto, si rifletta all’interno del dissidio ormai cristallizzato tra Matteo Renzi e la minoranza dem che gli rende la vita difficile. E soprattutto se esista, all’interno di una condizione così precaria, una via di composizione “amichevole” (ma anche no) che possa assomigliare al denaro. Una cosa, di getto, verrebbe da dirla: la poltrona. Il capo può blandire, può rendere la vita del dissidente molto più agiata facendogli intravedere una poltrona, una prospettiva, l’idea che il futuro appartenga anche a lui pur non essendo renziano in radice. Già ora, volendo, si può comporre un buon numero di soggetti che appartengono a questa categoria, bersaniani o addirittura dalemiani che oggi girano per l’Italia spargendo senza troppi problemi, anche magari con un filo di orgoglio, il verbo renziano. Qui si dovrebbe prevedere, nel mondo delle umane possibilità, anche la democratica opzione del cambiare idea, di trovare consonanze tra quanto si era (politicamente) prima e ciò che si vuole diventare oggi e questa operazione, probabilmente la più difficile, non è esattamente alla portata dello stile di chiunque. E si dovrebbe anche evitare l’idea che qualcuno sia da considerare un venduto sol perchè, un tempo bersaniano, oggi si mostra felicemente renziano, e per far questo occorrerebbe almeno da parte dei soggetti interessati la certificazione di una “sofferenza”, di un percorso ad ostacoli, di un tormento interiore, insomma delle analisi del sangue che mostrino questa autoemotrasfusione. Il che prelude certamente a delle rotture sul piano umano con i vecchi compagni di strada, ma questa in fondo è la vita. Toccherà agli elettori, naturalmente, valutare se e quanto questo percorso interiore di sofferenza sia stato fatto. (Qui, per fatto personale, pur non avendo mai scritto nè male nè bene di lui, tocca riconoscere a Roberto Speranza una sua dignità. Aveva la poltrona di capogruppo, pareva sufficientemente renziano ma evidentemente non era proprio così, perchè un bel giorno ha restituito il ruolo non ritenendolo più compatibile con le sue convinzioni).
In questi giorni sul Corriere un paio di interventi hanno analizzato la questione interna al Partito Democratico. Prima Cazzullo, che rivolgendosi ai dissidenti ha prospettato due uniche strade: battersi per far emergere un candidato interno che possa sfidare Renzi o preparare i bagagli per una nuova avventura. E poi Paolo Franchi, come al solito molto saggio, che ha richiamato il tempo in cui le contrapposizioni avevano uno straordinario sbocco al mare come i congressi, in cui si vinceva e si perdeva, non come adesso, ha malinconicamente aggiunto, dove i congressi «o non si fanno affatto o si fanno per ratificare la vittoria di un leader o, dove la leadership non è contendibile, sono solo delle convention». E poi la domanda finale: «Che valore può annettere a un congresso “vero” un partito che “vero” non è?» Ma insomma, il destino appare segnato, concordano i due editorialisti, e non scorgendo all’orizzonte una personalità così forte da battersi ad armi pari contro Renzi, l’inevitabilità di un addio al Pd si prospetta da parte della minoranza come un cammino tracciato. Tertium non datur. Epperò. Siamo ad agosto 2015 e le elezioni, secondo la tabella del premier, saranno a fine legislatura, cioè 2018, diciamo primavera 2018. Mettiamo vada così. Sono quasi tre anni, tre lunghi anni nel corso dei quali il dissidio interno può assumere forme anche patologiche. C’è forse un modo intelligente di vivere insieme?
Il modo renziano per vivere una soddisfacente vita insieme era illustrato in modo esaustivo un paio di giorni fa da una doppia pagina di Repubblica sostenuta da questo titolo: «Condannati alla felicità», anche se, in realtà, oggetto di quella visione era l’atteggiamento di molte grandi aziende del mondo che pongono in diretto collegamento l’atteggiamento positivo dei dipendenti con la redditività, al punto che “scimmiottando Google e Zappos – racconta il giornale – molte aziende si sono dotate di una figura «orwelliana» dedicata alla felicità dei dipendenti” come il Chief Happiness Officier. Valerio Magrelli, esaminando la questione, la valutava come “un’equazione perversa, un convincimento malato secondo cui il dipendente infelice equivarrebbe a un disfattista”. Per arrivare a noi, un gufo.
Il punto è proprio questo. Come dovrebbe vivere da qui al 2018 un dissidente del Partito Democratico, convinto della bontà delle sue idee, forte di una storia, delle ragioni sociali ispiratrici? E come dovrebbe vivere all’interno di un gruppo che quella storia in qualche misura non la avverte come propria, che non sente radici, che non ha bisogno anche del ricordo come nutrimento dell’anima? La pretesa che si adegui o, peggio, che faccia immediatamente le valigie è quel tono liquidatorio da azienda che purtroppo non ha – come composizione amichevole – l’uso del denaro come via alla felicità. Qui si parla ancora di idee, di passioni condivise, di questioni che fanno battere il cuore di tante persone. L’essere condannati alla felicità è un contrappasso tra i più crudeli, una pena terribile e probabilmente inaccettabile ma vivere “bene” questi tre anni non è solo una necessità per i dissidenti, è un dovere. Vivere bene significa innanzitutto accontonare il rancore nei confronti di Renzi, che purtroppo è vivo e si avverte nell’aria. Combatterlo in maniera serena, quando è giusto farlo, è l’unica maniera per disvelarne le debolezze. Non è la piccola, malinconica, imboscata parlamentare che può rendere dignitoso un percorso, stare da un’altra parte nello stesso partito vuol dire battersi sulle questioni forti, di principio, quelle che fanno dire ai cittadini: sì, questa è una battaglia giusta.
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