Partiti e politici
Nel nome del Pd
Il nome che l’amalgama mal riuscito tra Margherita e Ds avrebbe assunto lo si conosceva già prima che la cosa catto-comunista nascesse: sarebbe stato Partito e sarebbe stato Democratico. Il concetto di democrazia era la sola possibile fonte ontologica della formazione politica che avrebbe dovuto essere, nel nuovo mondo globale e post-bipolare, quello che le due chiese politiche nazionali, Dc e Pci, erano state nella Prima Repubblica italiana.
Ricordiamo il contesto. Nel Regno Unito si stava per chiudere il ciclo Tony Blair, in Italia c’erano ancora la Margherita di Francesco Rutelli e i Ds di Piero Fassino che provavano anche loro ad abbracciare la visione da Terza Via, l’unica cosa che appariva sensata, quasi rivoluzionaria, per la sinistra moderna ormai definitivamente non marxista.
Ds e Margherita però stavano insieme con lo sputo. Erano bandiere e apparati ancora forti delle rispettive rendite organizzative, che nessuno dei due intendeva mollare. Non c’era insomma nessuna pulsione ideale negli apparati che diedero vita, per inerzia, al Partito Democratico.
L’ispirazione concettuale del nome è di Massimo Cacciari, risulta ancora solida, fondata e vengono i brividi a pensare a quello che avrebbe potuto essere, il Pd, e che invece non è mai stato.
Nel 2005 a Milano il filosofo fece nascere il Centro di Formazione Politica, una scuola di cultura politica eterodossa potenzialmente destinata a formare un embrione di pensatoio del futuro Partito Democratico. A finanziare il CFP fu la Margherita di Francesco Rutelli a cui l’idea di un Partito che si chiamasse come quello di Clinton – e che potenzialmente potesse quindi aprire a lui, non a Fassino o a un altro grigio post-comunista le strade della leadership progressista in un’era ancora berlusconiana – era congenitamente più affine di quanto non fosse per i compagni del Pci-Pds-Ds – più restii ad abbracciare una filosofia politica democratica acquisita solo molto dopo il crollo del Muro di Berlino: più precisamente, dopo Tangentopoli.
Riflettere sul concetto di democrazia – era un po’ lo spirito che animava il gruppo di studio cacciarano – avrebbe condotto il nuovo Partito ad essere Democratico, non limitarsi a chiamare così. La democrazia rappresentativa, le istituzioni, le forme di partecipazione: il Partito Democratico avrebbe dovuto assumere la necessità democratica come unica possibile leva post-ideologica di progresso e giustizia. L’idea di Democrazia come fondativa, dunque, non attributiva della cultura politica del nuovo partito progressista italiano.
Nel nuovo mondo la leva di progresso civile e sociale sarebbe stato il Diritto, non l’ideologia. Alle elezioni le persone non avrebbero votato per questa o quella dimensione totalizzante dell’essere, avrebbero scelto tra diverse prospettive di protagonismo sociale e civile.
Lo spazio dell’individuo nel mondo globale diventava sempre più sovranazionale, e sempre più alla portata. Le possibilità tecniche aumentavano, aumentava la conoscenza e si aveva un diffuso sentimento di una inedita libertà acquisita. Acquisita – è fondamentale sottolineare – a prescindere dalla politica, a prescindere dai partiti. In tutto questo veloce, radicale, apparentemente autonomo cambiamento dei fondamenti sociali, istituzionali, democratici, cosa avrebbe dovuto essere un Partito se non un costruttore di Democrazia?
Le implicazioni della via cacciariana al Pd sarebbero state notevoli. Comunisti e cattolici, riflettendo di democrazia, non avrebbero potuto che diventare Radicali, pannelliani. E infatti Pannella ci rifletteva e provava a far riflettere quelli là. Tra i padri fondatori del Pd non è prevalso come noto il pannellismo. Gli apparati cattolici e comunisti, gli un contro gli altri armati di un solido know-how sulla gestione del potere, non hanno dato alcun valore politico all’enorme capitale ideale, culturale, progettuale rappresentato dal proprio nome – Partito Democratico. Si sono succeduti al potere “buoni a nulla” e “capaci di tutto”, establishment parassitari così minimi da risultare arroganti per il solo esser lì a rappresentare pubblicamente la propria non-necessità.
Di questo pezzo di storia gli archivi di Radio Radicale offrono i materiali originali – gli argomenti, le iniziative politiche, le provocazioni di Pannella e le reazioni, gli argomenti, le visioni prospettiche dei compagni non ancora dem.
I dirigenti del Pd di oggi, o forse solo anche i militanti, potrebbero trovarvi fonte di ispirazione data l’attualità cogente della questione democratica.
Riconoscere l’errore di allora può scongiurare di riprodurlo aggiornato oggi. Ma non sembra questo l’orientamento. La risposta alla domanda A che serve questo partito? non è Fare le cose a cui i populisti dicono No – come pensa quell’ingenuo masochista di Renzi. Il Pd serve se sa dare un senso fondativo, non inerziale né retorico alla Democrazia di cui la presunta Sovranità dei nazionalisti è evidentemente la morte lenta e plebiscitariamente deliberata.
Dopo aver approvato il liberticida Rosatellum, aver rinunciato alla riforma di civiltà penitenziaria di Orlando, aver fatto gli accordi con i clan libici per tenere a bada l’opinione pubblica; dopo contribuito alla modalità intergovernativa della decisione europea, dunque aver partecipato a svuotare l’Unione della sua essenzialità democratica federale, è tuttavia evidente come, tra nome e azione del Partito Democratico, l’abisso sia ormai difficilmente colmabile.
Il Pd fa bene a cambiare nome. Però è inutile che tolga il termine Partito per costruirsi l’ennesima paradossale verginità. E’ il termine Democratico che per il Pd non ha mai significato niente e che, ancora mantenuto nel nome, effettivamente ripugna.
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