Partiti e politici
Miti infranti e la necessità di fare politica
La democrazia diretta
Era nato come il partito della democrazia diretta, sotto forma di cyberdemocrazia. Il tutto era condensato in queste parole di Beppe Grillo, del 25 gennaio 2012: “Io con un click, semplicissimo, decido se fare la guerra o non fare la guerra, se uscire dalla Nato, se essere padroni in casa nostra, se avere una sovranità monetaria, una sovranità economica”. È quello che Morozov chiama “soluzionismo”, l’idea – ingenua, quanto infondata – per cui la tecnologia anziché portarci strumenti, ci porti soluzioni. E, nel caso specifico delle democrazie contemporanee, deriva anche dall’ipersemplificazione e banalizzazione mediatica della politica, che produce un tuttologismo imperante a reti unificate. A furia di delegittimare partiti e politici di professione, è diventata opinione comune che fare politica sia una cosa semplice, semplicissima. Se tutti falliscono è solo perché sono ladri, corrotti e incapaci. Basta essere onesti per essere ottimi politici. Di conseguenza, questa è la tesi di fondo del M5S, “Noi” siamo diversi: con l’onestà e il Web, tutto si risolve. Diventiamo, come per magia, competenti di geopolitica, politica internazionale, politica monetaria ed economica, solo per restare ai temi toccati in quella affermazione.
La frase di Beppe Grillo del 2012 è identica a quella del produttore di Waldo, protagonista di un episodio della serie TV Black Mirror. Un cartone animato che fa satira politica molto pesante e che cavalca populismo e antipolitica talmente bene da essere candidato alle elezioni. Così parlò il produttore: “A cosa servono i politici? Abbiamo Google, Wikipedia, possiamo votare noi, su tutto, con un click”. La risposta dell’attore, scettico, che impersona Waldo è: “Certo, come su Youtube…Ma tu lo sai qual è il video più visto su Youtube? Un cane che balla la sigla di Happy Days mentre scoreggia”. La tesi “difensiva” è semplice, quanto veritiera: le persone si disinteressano sempre più di politica, non si informano, usano il Web e i social network prevalentemente per intrattenimento, vivono in un ecosistema mediale basato sulle emozioni e sulla distrazione continua. In base a quali competenze dovrebbero essere in grado di decidere su tutto, in un mondo complesso e interdipendente come il nostro? Dov’è l’opinione pubblica informata che dovrebbe garantire una democrazia di qualità (tanto più se diretta e non rappresentativa)? C’è qualcuno che crede ancora alla favola dell’intelligenza collettiva nell’epoca della post-verità e della dissonanza cognitiva come via maestra nel reperire informazioni?
Se la democrazia moderna è rappresentativa c’è un perché. Anche se la vulgata tecnottimistica ce l’ha fatto dimenticare quel perché. In molti si sono convinti che basta uno strumento per trasformarci in tuttologi, ipercompetenti e in grado di fare politica a tempo pieno. La politica di professione non serve, bastiamo noi per decidere su tutto. Eppure, di votazioni online nel M5S se ne vedono poche. E, quando si vedono, sono decise dal vertice “segreto” – che segreto non è – più che altro per ratificare decisioni praticamente già prese. Come nel caso del voto per far dimettere il Sindaco di Quarto. Chiunque sia anche solo sfiorato da un’indagine giudiziaria viene sistematicamente linciato dalla “folla forcaiola”. Ecco perché nel caso di Quarto la votazione è stata fatta e nel caso di Livorno no… Scegliere quando far votare gli attivisti, significa spesso sapere in anticipo l’esito del voto.
Più in generale, quello della democrazia diretta è un sogno, vecchio come il mondo, che ha già fatto ampiamente danni quando si è provato a realizzarlo. Come diceva Bobbio, “nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia”. Il cittadino totale, come lo Stato totale, genera inevitabilmente una comunità in cui tutto è politica, eliminando sfera privata, molteplicità dei ruoli e di conseguenza libertà individuale. Vi dicono niente lo “spionaggio” delle mail, le epurazioni decise dall’alto e sottoposte alla gogna del “tribunale del popolo”, le multe salatissime per chi cambia opinione e dissente, le regole che cambiano in base all’umore e alle simpatie del capo, 6 mesi di amministrazione Raggi passati solo a parlare di rapporti e frequentazioni personali?
Di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno. Ma con l’inferno abbiamo già dato, grazie.
La trasparenza a tutti i costi
Doveva essere “tutto in streaming” perché chi non ha nulla da nascondere, non deve temere nulla. Peccato che lo streaming sia l’opposto della trasparenza. E ciò vale in politica, come nella società. In sociologia si chiama “paradosso dell’osservatore”: chi sa di essere controllato, come quando è ripreso da una telecamera, cambia il proprio atteggiamento, recita una parte, è tutto fuorché sincero. Se si tratta di un politico, fa quello che il suo “popolo” si aspetta da lui. Se la politica fosse sempre in streaming non si deciderebbe mai nulla. Sarebbe una palude divisiva e infinita. E infatti anche lo streaming, nel M5S, ce lo siamo giocati molto presto. Riappare, come per magia, solo quando serve a “inchiodare” qualche avversario alle sue responsabilità (vere o presunte) o quando è utile per dimostrare al popolo del Web che il MoVimento è dalla parte giusta. Per il resto, lo streaming non esiste, se non nelle direzioni o assemblee del PD…
Uno vale uno
La retorica della democrazia diretta prevede che non ci siano gerarchie, ruoli e organizzazione – da cui la farsa del non-statuto a definire il non-partito. Ora, la domanda è semplice: se anche un condominio ha bisogno di un regolamento, di un’assemblea e di un amministratore per “sopravvivere”, come può funzionare una comunità da 8 milioni di elettori senza organizzazione interna? E infatti c’è…era una diarchia (Grillo-Casaleggio), oggi è una specie di monarchia, coadiuvata da Casaleggio Jr. e da ciò che resta del Direttorio, che anziché prendere in mano il partito sta assumendo le sembianze di un drappello di cortigiani del monarca. Una monarchia assoluta e carismatica, che come si conviene nei casi di leadership carismatica “pura” va oltre le regole, le fa e le disfa a proprio piacimento. E’ assoluta, appunto: ab soluta.
Il nome, il simbolo e la sede legale del MoVimento (il blog) appartengono a Beppe Grillo. Il codice di comportamento varato ieri attribuisce al “garante” un sacco di funzioni-chiave. Altro che uno vale uno. E se consideriamo il traffico sul blog, ben alimentato anche da uno squallido clickbaiting sui social network (alla faccia della trasparenza), più che un’organizzazione politica sembra sempre più una società a fini di lucro. Siamo passati dal partito-azienda (di Berlusconi) all’azienda-partito. Comunque vada questa esperienza, grazie alla pubblicità sul loro sito, Grillo (e la Casaleggio Associati) si sono sistemati per generazioni.
Onestà, onestà, onestà
La mediatizzazione della politica ha generato un corto-circuito mostruoso. Scandali, corruzione, vicende opache e retroscena più o meno reali fanno “notizia” e audience, “vendono”. La politica è ormai un intreccio di storie personali che attira la curiosità del pubblico solo attraverso questi canali “emotivi”. Un’assoluzione non fa notizia, un avviso di garanzia distrugge una carriera. Un’intercettazione telefonica ininfluente per le indagini diventa motivo di dimissioni a furor di popolo. Semplificazione, voyeurismo e banalizzazione sono un regalo dei mass media che, per ragioni commerciali, piazzano la loro “merce”, generando una massa di persone politicamente disinformate, nel senso che l’informazione è sviata: non si parla mai di politica perché è complessa, noiosa e faticosa, implica studio e analisi articolate. Si parla di vicende personali, possibilmente quelle che alimentano rabbia e indignazione. Questo sistema, nel giro di pochi anni, ha prodotto un sostrato di populismo (tutto è semplice, tutto è fattibile) e di antipolitica (sono tutti ladri e corrotti) enorme. Il M5S ha cavalcato alla grande questa ondata, senza fare i conti con le responsabilità di governo. Quando queste arrivano però, arrivano “automaticamente” anche le indagini della magistratura. Che non sono condanne, ma che ormai nel “percepito” lo sono eccome. Il sistema mediatico-giudiziario ha tritato tutti e continua a farlo. Anche il Movimento 5 Stelle non è più immune. E infatti non sa più come comportarsi in caso di avvisi di garanzia o di inchieste in corso: tre sindaci, tre reazioni diverse. Come sempre, decise dal vertice, alla faccia dell’ “uno vale uno”. Fino al possibile quarto sindaco indagato, il più importante di tutti, che ha spinto ad approvare il “Codice di comportamento” in cui si sostiene che l’avviso di garanzia non implica automaticamente gravità. Una svolta garantista “a orologeria”.
Qual è la reason why del MoVimento?
In una fase in cui il M5S sembra in crescita inarrestabile, si trova a dover fronteggiare la sua crisi più profonda. Una crisi di “funzione”, che mette in discussione la sua stessa identità. Ad oggi, il MoVimento non è un’organizzazione che pratica democrazia diretta, non è un’organizzazione in cui regna la trasparenza e non può più vantare la “differenza antropologica” (noi-loro) e l’esclusiva sull’onestà. Siamo al paradosso dei paradossi: rischia di essere il primo partito, ma non c’è più una sola ragione costitutiva per votarlo. Se non quella delle “neofilia”: nella nostra sindrome da shopping permanente (Bauman) che ha invaso anche i nostri comportamenti elettorali, bruciamo leader come oggetti di consumo e cerchiamo costantemente la “novità” che possa eccitarci e spingerci a sceglierla. Una scelta emotiva, sia chiaro, basata sull’immagine e sull’appeal del “marchio”, come lo è ogni scelta da consumatori. Come scriveva Packard negli anni ’50: “noi non fumiamo sigarette. Fumiamo l’immagine delle sigarette” (frase derivante da un esperimento fatto su fumatori incalliti che dopo anni di fumo fedele alla propria marca non erano in grado di riconoscere, provandole, le sigarette che fumavano abitualmente).
Se questa è la prospettiva, siamo semplicemente al “proviamo pure questi”. E’ questa l’unica reason why, l’unica ragione per votare M5S. Ma questa ragione significa che anch’essi saranno bruciati in tempo di record dalle stesse logiche che hanno cavalcato per emergere e per crescere. Appena saranno percepiti come “politici” e non più come “cittadini”, sarà finita anche per loro. E cercheremo qualcosa di nuovo. Di nuovo.
A quel punto il M5S potrebbe dissolversi come neve al sole. Per sopravvivere, dovrebbe trasformarsi in un partito vero, fare un congresso, stabilire un’organizzazione e delle regole interne. Cercare un messaggio originale che lo posizioni nello spazio politico e individuare un nuovo leader. Solo questo può garantire un futuro alla comunità pentastellata, rigenerandosi in un processo di normalizzazione strutturale, ma sempre orientato alla novità permanente per arrivare alle giuste “quote di mercato”.
In caso contrario, sarà una meteora che lascerà in eredità segni evidenti e costitutivi nel rapporto tra noi e la politica: segni di populismo e antipolitica generalizzati, di invidia sociale e atteggiamenti distruttivi verso regole, istituzioni, autorità cognitive. Un processo che era già in corso, in tutto l’Occidente, ma che non aveva ancora avuto “imprenditori politici” così palesemente orientati a cavalcarlo e ad alimentarlo, dalla A alla Z. Se non volete che l’unico lascito del MoVimento sia quello di sfibrare ulteriormente una comunità nazionale già in via di demolizione, trasformatevi in un partito vero. E cominciate a fare politica.
*Questo articolo è il “riarrangiamento” di un altro, scritto 8 mesi fa. Repetita iuvant.
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