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Michela Murgia e le trappole di Salvini in cui cadono anche gli intellettuali
Scrive Michela Murgia che lei nella vita ha anche lavorato e molto, prima d’esser, com’è adesso, una intellettuale che si guadagna da vivere con le parole; lo ha scritto qualche giorno fa, sciorinando l’intero proprio curriculum vitae per rispondere a una nuova, molto discutibile considerazione di Matteo Salvini sugli «intellettuali radical-chic italiani […] primi al mondo per spocchia» e lontani dalla gente. Il riferimento era proprio a Michela Murgia. Dallo scontro, entrambi – Murgia e Salvini – hanno raccolto un prevedibile e reciprocamente impermeabile consenso presso i propri sostenitori. Altrove, però, a distanza di giorni persiste lo sconcerto per l’aver assistito alla misura dello stato delle cose in una forma così inconsapevolmente feroce, e per l’inevitabile auto-mortificazione, in entrambi, del proprio ruolo pubblico.
È difficile capire fino in fondo il perché una intellettuale come Michela Murgia abbia deciso di adattarsi sul terreno di Salvini, impegnandosi in ciò che lei stessa ha chiamato la «sinossi dei curriculum» per smontare la comunicazione del leader della Lega. La scrittrice, peraltro, conosce bene i meccanismi della comunicazione e infatti di recente aveva motivato il proprio rifiuto di partecipare a una trasmissione televisiva verso la quale nutriva una certa diffidenza spiegando che «c’è un solo modo per vincere ai giochi truccati ed è non giocare». Anche la comunicazione di Salvini, in un certo modo, si può considerare un gioco truccato. Così, se pure l’obiettivo della «sinossi dei curriculum» doveva essere quello di smontare la comunicazione del ministro dell’Interno, quel giochino alla fine è apparso del tutto inutile, nel migliore dei casi.
Infatti, nell’affermare la propria consapevolezza delle cose della vita, e nel motivarla col fatto che prima di scrivere aveva lavorato come cameriera e addetta in un call center, la Murgia ha finito per dare della funzione dell’intellettuale una idea del tutto simile a quella abitualmente espressa da Salvini, di fatto confermandola; inoltre, nell’affermare come sia invece proprio Salvini «quello distaccato dalla realtà» poiché da sempre impegnato in politica, la scrittrice ha nuovamente utilizzato le categorie di giudizio normalmente utilizzate da Salvini nei confronti degli intellettuali, questa volta applicandole alla politica, e con ciò sembra persino dare un implicito giudizio negativo della attività politica di per sé.
Insomma, quelli utilizzati dalla Murgia sono i consueti argomenti dei populisti; la scrittrice ha deciso di rispondere a Salvini specchiandosi in Salvini, come anche hanno fatto certi scrittori e giornalisti intervenuti successivamente a supporto della collega. Non è la prima volta che accade qualcosa del genere; non è la prima volta che una discussione che altrove e in un altro tempo avrebbe potuto produrre un pensiero pubblico, magari sulla ridefinizione del ruolo dell’intellettuale, si riduce a un banale flame da social; si veda, tra i tanti, anche il recente caso che ha coinvolto Elena Stancanelli e i relativi colleghi-supporter. Ed è proprio questo il punto.
Il problema, insomma, non è Michela Murgia e, anzi, lo sfogo della scrittrice è umanamente del tutto comprensibile; il problema sta semmai nel come il genere di dibattito che si è poi sviluppato pubblicamente si sia depositato nella realtà. Il problema è cosa produca – che genere di pensiero pubblico produca – questo genere di interventi. Purtroppo, a distanza di giorni è evidente come tutto si sia ridotto a nulla più che uno sterile bisticcio da social, uno scontro tra i tanti, una occasione persa, come accade oramai molto spesso quando la dimensione pubblica della riflessione viene smarrita, poiché prevale l’orizzonte individuale.
Viene in mente, come esempio di una diversa modalità di intervento sulla realtà da parte di un intellettuale, un testo – «Fascisti: padri e figli» – che Pasolini affidò a Vie Nuove nel 1962 partendo da una circostanza non del tutto sovrapponibile ma tutto sommato adiacente a quella dalla quale siamo partiti. Al poeta era stata richiesta una intervista da un rotocalco molto diffuso e, nonostante le sue tante perplessità, alla fine aveva accettato, trascorrendo una intera giornata con la giornalista. Pasolini, in quella occasione si era aperto, si era fidato e infine si sentì tradito: «Qualche settimana dopo, uscì il suo pezzo sul rotocalco. Era quanto di più offensivo si potesse scrivere nei miei riguardi: offensivo perché scritto non dal solito imbecille che mi detesta in nome dei suoi padroni reali o immaginari, ma da una persona educata, civile, a un livello giornalistico buono. Mi offendeva il fatto di veder ribaditi, da quella persona che mi era parsa rispettabile, tutti i luoghi comuni che persone indegne di ogni rispetto hanno accumulato su me […], giudizi da provinciale e da ignorante, che, quasi per inerzia, la mia amica di un giorno ha ripetuto con l’ebbrezza che dà l’ammiccare attraverso il luogo comune con dei sordidi complici».
Ebbene, Pasolini nel suo racconto aveva sì ricostruito i fatti ma poi, come sempre, aveva utilizzato questo materiale per dare una lettura del presente; anche in quel caso, pur partendo da un caso personale, un caso che per di più aveva a che fare con la comunicazione e le sue regole, aveva comunque messo insieme frammenti di un ragionamento generale – «Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società» – e quel ragionamento contribuiva già in quel momento a un pensiero pubblico; ed è appunto questo ciò che fanno normalmente gli intellettuali: estraggono un senso dal presente e lo offrono agli altri come criterio di comprensione non soltanto del presente ma anche dell’esperienza umana senza tempo; insomma, dell’esistenza stessa. Non a caso, quel testo – che pure parte da premesse così contingenti e personali – viene ancora oggi molto letto e citato; a volte, va detto, anche molto a sproposito, come capita nell’assurdo e molto peloso dibattito sul fascismo degli antifascisti.
Nel genere di discussioni nelle quali capita di imbattersi di questi tempi, invece, sembra che gli obiettivi siano altri, più ripiegati sull’orizzonte individuale. Spesso si tratta di scambi che si esauriscono in un giorno o due, il tempo che si esaurisca il flame sui social e che le pagine dei quotidiani facciano in tempo a darne un resoconto, sempre che i protagonisti valgano la pena. D’altro non v’è traccia e quasi mai di tutte queste parole resta un segno nel tempo.
Sembra insomma che in ciò – nello scontro individuale, nel fatto personale, nell’orizzonte domestico – anche gli intellettuali misurino in questi anni la propria funzione e che, anche per gli intellettuali, in ciò risieda almeno una parte del senso del proprio ruolo pubblico. È evidente come a ciò, e alla ridefinizione del ruolo pubblico dell’intellettuale, non sia estranea la crisi dei quotidiani che ha lasciato spazio prima al linguaggio e ai toni dei talk show televisivi e poi alla comunicazione via social come modalità più efficaci e pervasive per la costruzione di un pensiero pubblico, con ciò che ne consegue in ordine alla capacità di relazione con la complessità.
Ma, se è così, perché allora accettare i limiti evidenti di questa situazione? Perché, per tornare alla polemica tra la Murgia e Salvini, accettare anche per una volta soltanto come arena il mondo racchiuso nei confini stabiliti da Salvini, sapendo per di più – e la Murgia lo sa e lo dice – che comunque non è la strada giusta per smontare quella comunicazione? Perché invece non forzare l’orizzonte chiuso imposto dalla comunicazione politica? Perché non sottrarsi a quelle regole, rivendicando il proprio ruolo di intellettuale? Perché non porsi altrove rispetto alla semplificazione che la cultura di questa destra sta cercando di imporre anche come strumento di interpretazione e di governo della società? Perché insomma non smontarlo davvero quell’orizzonte culturale invece di immergersi anche soltanto temporaneamente – e inutilmente – in quel mondo, rischiano così persino di confermarne le regole?
Certo, Michela Murgia ha completamente ragione; ma a che serve – a cosa è servito? – avere ragione in un mondo i cui confini sono stabiliti da Salvini e nel quale, per questo, la Murgia sarà comunque sempre straniera?
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